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La politica non permette la crescita delle città. Un'analisi su Monte Sant'Angelo

a cura di Matteo Notarangelo, sociologo counselor professionale.

La crisi delle città è determinata dalla classe politica, protetta dagli organi di controllo amministrativo, oggi inesistenti. Dalle città chiuse, con poca partecipazione politica, chi può fugge, chi non può si adegua e chi non vuole si scontra contro i poteri visibili e invisibili, che impediscono la crescita civile. In quelle città, le classi dirigenti non hanno una visione, un progetto per le loro comunità e ostacolano ogni idea di crescita civile e di partecipazione democratica. È difficile definire democratiche le prassi di governo in queste comunità, che non riescono a immaginare Ia città del futuro. I soliloqui dei rappresentanti istituzionali mostrano i disastrosi distacchi dalla gente, nauseata dalle scelte amministrative  di individui incontrollati. Ancora oggi, ci sono tante città  prigioniere del passato. La loro classe politica resta espressione di vecchi modelli di potere, chiusa ai tempi nuovi e avulsa dalla  nuova scienza urbana. Lì succede che i consigli comunali sono vuoti, mentre si espande la folla solitaria, sempre più lontana dalla noia della politica amministrativa, che ritrova le sue ragioni nei vecchi modelli organizzativi del passato. Le città politiche esistenti sono città solitarie, che negano  la partecipazione civile e politica. Quelle città attraversano il momento buio della loro storia  plurisecolare, falsificata e poco raccontata. Una storia fatta di comportamenti antidemocratici e di tanti silenzi.

La crisi della città

All’origine della loro crisi, c’ è l’individuo che ritarda, o rinuncia, a essere cittadino. Le città si trasformano in agglomerati urbani dove è in atto un ritardato scontro civico tra le persone che abitano quei territori e le loro istituzioni civiche. Un conflitto silenzioso, che provoca i suoi disastri umani, sociali, culturali e demografici. In quei luoghi, la gente che resiste non fronteggia un nemico invisibile, ma una secolare storia sociale fatta di poteri "legali", che rallenta la crescita civile e democratica dei suoi abitanti. Non è difficile conoscere il pensiero motivante delle loro istituzioni rappresentative. Il “gioco” sociale” è noto ed è conosciuto. Quell’ antica storia di potere narra di due mondi: quello centrale e quello periferico. La loro cultura politica organizzativa affonda le radici nei vecchi e lontani modi di pensare di persone diverse, che  difendono i loro significanti medioevali. Si sa, i partiti e i movimenti politici, che dominano in ogni dove, non sono democratici e non sanno più sognare. La loro vita interna è determinata da un élite centrale con uomini e donne di servizio, tenuti in uno stato di dipendenza. La periferia, invece,  è popolata dai "signori" del consenso, piccoli e inadeguati politici, che, in cambio di voti, impongono la loro volontà al di sopra della legge. Questi due mondi, costruiti su ragioni politiche e giuridiche di subordinazione, sono ancora lì a imporre le loro abitudini. Il confondersi di questi due agiti è, ormai, la grammatica del potere politico e amministrativo di oggi. Un potere freddo, antidemocratico che agisce con logiche escludenti. Quello del potere centrale e quello del potere periferico sono due ordini di convivenza dove predominano e si confondono la legge scritta e la legge orale. In quei territori dell'abuso, regnano il potere della forza politica, derivante dal voto, e il potere della forza, sgorgante  dall'arbitrio degli uomini periferici. Due poteri che dialogano dai tempi antichi e che, tutt'oggi , si completano.

Il controllo dei municipi

L’intrecciarsi delle due visioni politiche, centrale e periferica, con le loro pratiche di vita, si manifesta nei riti elettorali, che hanno poco o nulla di democratico. Durante il voto, diventa visibile la forza della legge non scritta, l’organizzazione tribale e gli intrecci socioeconomici dei due mondi, che producono i loro frutti politico-istituzionali velenosi.  Sono “patti tra uomini e tra famiglie”. Gli uomini e le donne che incarnano i simboli dei partiti politici di governo sembrano che abbiano una  storia politica,  sociale e culturale di rispetto, di idealità, di progettualità, ma, di fatto,  sono espressione del modo tribale di vivere i tempi moderni. Costoro non formano la "casta", bensì i puntelli del sostegno elettorale al candidato vincente, quasi predestinato alla carica pubblica. Quello che si manifesta in quelle città  è un patto tacito tra "uomini e famiglie, scrivevo,  che, con l’ “assassinio” democratico elettorale, diventano forze invisibili. Gruppi di persone che, poi, si evaporizzano dagli spazi pubblici e scelgono di agire nell'anonimato. Dopo il voto, con il lungo silenzio civile, inizia il tempo  della loro certezza, quel tempo di contare su un’amministrazione amica, che potrebbe soddisfare il bisogno del membro della tribù, qualora emergesse. A costoro, poco importa degli altri, dei luoghi comuni, delle istituzioni civili, delle regole di democrazia rappresentativa, della partecipazione democratica, della sapienza, della giustizia, della concordia, della temperanza e della carità, virtù del buon governo.

La rinuncia alla cittadinanza

Consumato il rito elettorale, si struttura il “potere” civico. Gli organi di governo mostrano i volti delegati all’uso del potere pubblico. Delle loro competenze e abilità, nessuno ne  parla. Queste pratiche di potere, chiuse in se stesse, vengono subite dalle popolazioni. In questo gioco dell’assurdo “politico”, i destini di tanti si intersecano e si incrociano con la vita pubblica. Ai bisogni della comunità si avvicendano quelli dei clan del consenso e inizia il controllo sociale e della spesa pubblica, sempre ammantata da tanti silenzi. Il tutto diventa normalità. Nel tempo, resta da sostituire qualche fidato impiegato e incanalare i soldi pubblici. Per questo, ci sono  i concorsi pubblici e le gare di appalto. Agiti di “potere pubblico” perfetti nella forma, spiegati sempre con qualche ragione o con un'improvvisa emergenza amministrativa. E succede che dai tempi antichi viene mosso lo spirito del dominio, che giustifica e formalizza l’ impegno tribale preso o da rinnovare, a cui dare la giusta “fattezza” legale. In queste pratiche concitate,  trovano ragioni le  buone visioni della città, l’ ordinata crescita della popolazione, il salutare benessere dei suoi abitanti, solo se rientrano negli effetti collaterali. E’ vero, servono delle proposte per incalzare gli “eletti” sul terreno dello sviluppo e della crescita della comunità. Tanto è possibile dove esiste una comunità politica civile, aperta, democratica. Ma non c'è. In questo tempo, le idee innovative, purtroppo, si enunciano, solo nelle giuste occasioni, senza crederci troppo. Accade, perciò, che gli spazi della discussione e della partecipazione, spesso, vengano resi afoni, per non turbare il controllo sociale e i “patti”  antichi stretti . Qui, è ovvio, arretra la legalità e muore la democrazia  rappresentativa. Nel  prevalere dei silenzi collettivi, non può espandersi la società civile. Chi volesse rincorrere il diritto, dovrebbe vivere nelle aule dei tribunali e avere una buona, anzi, ottima salute mentale. Nel santuario del diritto, quell'idealista verrebbe crocifisso. Ogni buon cristiano sceglie, perciò, di vivere la sua vita da persona normale, rinuncia ad aprire conflitti con i tanti poteri, piccoli e miseri, che si annidano nella pubblica amministrazione e si ramificano un po’ ovunque. E’ questo il tempo e la storia che impongono la rinuncia alla cittadinanza attiva.

La folla solitaria

In quelle città tristi, ci sono consigli comunali occupati da consiglieri eletti con "ammassi" di voti. Ci sono sindaci che governano senza dialogare con i cittadini. Ci sono moltitudini di individui educati a considerare il governo della città una “cosa loro”, privata,  degli eletti. In quelle contrade può accadere che, in piena pandemia, il municipio chiuda il portone principale d’ingresso. E nessuno si meraviglia. È evidente: in questi luoghi, difetta  la crescita della partecipazione politica, da tempo addomesticata, arranca la coscienza civica e domina la cultura della sopraffazione darwiniana. Per le forze di governo periferico, il mutismo, che non è omertà, diventa la prova della buona amministrazione, della solidarietà. Non è cosi. La gente normale, i tanti resistenti, resi una folla solitaria, sono  sempre più lontani dalla vita collettiva. Eppure, tra di loro, c'è chi pensa di costruire il futuro in queste comunità antidemocratiche, per divulgare i valori della partecipazione e della condivisione democratica, necessari per riprogettare la città gentrificata. Prima o poi, ci saranno delle donne e degli uomini "nuovi", che sogneranno una nuova città aperta, includente, democratica con nuovi modi di pensarla, di abitarla, di goderla e con tanti nuovi bisogni e tanti nuovi diritti. In quella città, forse, non avrà il diritto di cittadinanza "l'uomo del Medioevo", che  continua ad abitare i municipii di oggi.

 

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