La festa di San Michele, una festa di “pellegrini”

a cura di Donata dei Nobili per ESSERCI il Giornale della Salute Mentale.

Giorgio Otranto scrive:"A Monte Sant'Angelo, c'è una grotta naturale, che si addentra in ventiquattro metri nelle viscere della terra, l'insediamento in altura, il bosco, lo scenario del viaggio della montagna garganica, l'aspro percorso in roccia che inizialmente i pellegrini dovevano fare per raggiungere il punto più interno della cripta sono i motivi che, insieme alla sorgente di acqua miracolosa, caratterizzarono da subito il culto dell'Angelo sul Gargano e contribuirono a creare una vera e propria tipologia degli insediamenti micaelici, cioè un modello imitato e diffuso in diversi paesi europei durante il Medioevo. L'arcangelo Michele, oltre alle funzioni bibliche di custode e patrono del luogo, messaggero di Dio, profeta e liturgo, nella tradizione garganica assume una prorompente vitalità, appare ripetutamente, incide la roccia, assume iniziative, ammonisce, punisce, combatte, accorre in soccorso degli uomini, sceglie il sito della propria chiesa e ne rivendica la consacrazione".

Maggio è il mese del ricordo della leggenda della prima apparizione di san Michele, detta del “Toro”. Da diversi secoli, sul Gargano, ed in diverse località, l’Arcangelo viene festeggiato l’8 maggio e il 29 settembre.

Una festa religiosa vissuta con forte sentimento di fede da tanti pellegrini, che affonda le sue radici nei culti pagani, poi sostituiti da quello cristiano. Un momento di vita spirituale, che porta tanti fedeli a Monte Sant’ Angelo. Ed oggi, la Città continua a narrare i tempi passati di un Arcangelo di pastori, divenuto Arcangelo di guerrieri e tornato Arcangelo di pellegrini.
Ma che cosa accadeva nelle strade di questo luogo in quei giorni di festa? Il 7 maggio la città sacra dell’Arcangelo assumeva un aspetto misterioso per l’arrivo di pellegrini, che venivano accolti in case private e dormivano su sacchi di paglia. Attraverso impervi sentieri, coste dei monti, dirupi,  giovani e vecchi, uomini e donne, sgranando il rosario, salivano il monte per le serpeggianti scorciatoie, fino ad arrivare in città. Ogni anno, i pellegrini oranti salivano la Montagna per incontrare e pregare l’Arcangelo. E lo facevano per rievocare l’8 maggio, “la festa dei popolani”, e il 29 settembre,  la festa “colta e libresca”. Due date che avevano molto a che fare con la transumanza e con i pastori abruzzesi, ma anche con le compagnie di pellegrini. Il pellegrinaggio delle compagnie è un “racconto” di religiosità popolare, legato, per tanta parte, non solo alla liturgia della Chiesa, quanto ai vari cicli dell’uomo e alla sua cultura popolare.

L’ apertura del pellegrinaggio garganico si può collegare all’inizio della primavera (8 maggio), per   terminare all’inizio dell’autunno (29 settembre). Anzi, queste date rappresentano anche i cicli stagionali della transumanza delle pecore, che, fin dall’antichità, si svolgeva tra l’Abruzzo e la Puglia.

Un vissuto della cultura agricolo-pastorale del Gargano, che si è proiettato nel culto di san Michele. Alla metà del VII secolo, della data dell'8 maggio, si appropriarono i Longobardi, per ricordare la vittoria della battaglia contro i Bizantini, combattuta nelle vicinanze di Siponto. Costoro, dopo la vittoria, fecero della Grotta, reputata oggi tra le 10 grotte sacre più belle d’Italia, il loro Santuario nazionale e san Michele il loro protettore, in quanto popolo di guerrieri.
Fin dal Medioevo, per questi motivi di invasioni e guerre, vinte e perse, la sacra Grotta era stata meta di pellegrinaggi, che avevano lasciato traccia in una ricca documentazione epigrafica, costituita da segni, croci e graffiti estemporanei, tracciate sulle pareti del Santuario, perlopiù da persone analfabete o di bassa estrazione sociale. Era il 7 maggio, scrivevamo, il giorno dell’arrivo dei primi pellegrini, raggruppati in compagnie.

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Monte Sant’Angelo, in quei giorni, cambiava, nella quasi indifferenza dei suoi nativi. Per le strade cittadine della città e nell’atrio del Santuario, si incontravano tanti venditori di frutta come arance, carrube, nocciole, cavallucci di cacio, ostie piene, bastoni crociati, ciuffi di foglie di pino, sporte, incensi, quadri multiformi, figurine, corone, statuine e medaglie.
Per la festa religiosa, il 7 maggio divenne il giorno in cui i pellegrini potevano cantare delle strofette, delle litanie, in lode di san Michele, dietro la porta delle Basilica e per ascoltare, nel giorno seguente, la prima messa del mattino e quella successiva. Appena faceva buio, si accendevano enormi fanoje. Le cataste di legna venivano preparate il pomeriggio e custodite da giovani Montanari, che le avrebbero accese. Ultimate le preghiere, con l’accensione dei fuochi, le fiamme arrivavano in alto fino ai balconi e alle finestre cittadine. Era in quel momento che i pellegrini gridavano: “Evviva San Michele; San Michele evviva!”. Durante l’accensione della fanoja, fanciulli e ragazzi cantavano lodi osannanti il guerriero celeste. Consumata la legna dei falò, i cittadini raccoglievano i carboni e li portavano in casa propria. Nel mese di maggio e, in modo particolare, i primi giorni di maggio, la città veniva “ceduta” ai tanti pellegrini, organizzati in compagnia per farne "la città della fede".

Erano giorni in cui la città riscopriva la sua antica tradizione: assumeva un nuovo caratteristico aspetto per la venuta di migliaia di pellegrini. Lungo le tortuose vie bianche, dove  sfilavano i vecchi carri pesanti, coperti di stuoie o di cera incerata, ben tesa, su lunghe canne per ripararsi dal sole e dalla pioggia, oggi sfilano moderni pullman e tantissime macchine. Allora, come oggi, alla testa di ogni compagnia c’era un “priore”, che guidava il gruppo e si preoccupava dell’organizzazione e dello svolgimento del pellegrinaggio, stabiliva le tappe e i tempi di percorrenza, intonava i canti e le preghiere, prescriveva  le penitenze. Il “priore” veniva aiutato da una “priora”. I membri di ogni “compagnia” indossavano di solito fasce e fazzoletti dello stesso colore e portavano coccarde, distintivi o medaglie con la stessa immagine.
Una volta ultimati i preparativi, le compagnie, con alla testa uno stendardo e una croce, si muovevano dal paese d’origine e raggiungevano a piedi il Santuario, percorrendo a piedi l’ultimo tratto di strada, talvolta trascinando, in segno di penitenza, un pesante masso legato al collo. Ancora oggi, alcuni massi sparsi nelle vicinanze del Santuario sono considerati dalla credenza popolare retaggio di tale tradizione. "I pellegrini, scesi nella Grotta, dopo la santa messa,  -riferisce il maestro e voce narrante delle tradizioni popolari di Monte Sant’Angelo Domenico Palena- bevevano un bicchiere "d'acqua di san Michele", attinta dal pozzetto, ritenuta salvifica. Molti di loro, la portavano a casa per i fedeli malati".

L’ingresso nel Santuario di alcune compagnie, tra cui quelle di Boiano, S. Marco in Lamis e Bitonto, che sono tra le più antiche e organizzate, veniva accompagnato dal suono delle campane, mentre i pellegrini intonavano inni, canti, litanie, filastrocche in cui si raccontavano le imprese celesti di san Michele.
La compagnia di Boiano e di Torretto veniva rappresentata con il miracolato, caratterizzato da un devoto con i piedi nudi che, con la croce in mano, ascendeva il sacro Monte. Ai lati, vi erano dei devoti che portavano dei lampioncini: simboli di luce e di speranza. Due ragazzi, con campanacci, annunziavano il passaggio della compagnia. Essi ritmavano il tempo del canto che si snodava lungo la strada diretta al Santuario di san Michele, canto che si caratterizzava attraverso l’assolo di un pellegrino e il coro della compagnia.
Queste stesse compagnie seguivano ancora il rito delle pietre. Essi compivano a piedi la salita della montagna e ad ogni curva raccoglievano una pietra che si caricavano sulle spalle. Giunti in cima, si contavano le pietre: il numero 18 veniva interpretato come invito dell’Arcangelo a ritornare in pellegrinaggio,  mentre il numero 19  veniva considerato come una segno di san Michele per aver concluso il pellegrinaggio.

Pellegrinaggio

I sassi venivano, poi, appesi agli alberi del boschetto presso la Basilica. Fra le tante compagnie che raggiungevano la città dell’Arcangelo, vi erano quelle che cantavano  l’ora pro nobis al suono “ddi ciaramaedde” e fra esse la più importante era quella di Atina, che arrivava la sera del 7 maggio. Non meno importante era la compagnia di Bitonto, che continua a donare grossi recipienti di olio per alimentare, per tutto l’anno, la lampada votiva che arde da secoli nella sacra Spelonca. Il dono veniva, e viene fatto, per conto degli abitanti, dell’industrie di Bari e provincia.

A circa 20 chilometri di distanza da Monte Sant’Angelo, inoltre, esisteva una fonte d’acqua presso la quale i pellegrini si fermavano per il "battesimo" e il lavaggio dei peccati, una vera e propria cerimonia penitenziale, che imponeva ai novizi la corona d spine in testa e l’ingresso nel santuario a piedi scalzi. Fino a qualche decennio addietro, molte compagnie, in prossimità del Monte Gargano, avevano l’usanza di mettere all’asta i propri stendardi e i propri simboli, il ricavato veniva donato al clero della Basilica. Caratteristica è anche la compagnia di San Marco in Lamis, il cui pellegrinaggio al Santuario di san Michele avviene ogni anno tra il 25 e il 27 maggio. I pellegrini s’incamminano a piedi da San Marco a Monte ed il loro cammino è simbolo del viaggio, con tutti i valori simbolici di cui esso si carica, visto come momento di rischio, esperienza di trauma fisico e psicologico dal distacco delle cose e delle persone conosciute e familiari. Le compagnie più assidue, ancora in questo tempo, sono quelle campane (Caivano, Aversa, Atella, Giuliano, Ottaviano), abruzzesi e molisane (Atessa, San Salvo, Lanciano, Basto, Boiano, Ripabottoni), Lucane (Potenza, Avignano, Genzano) e Pugliesi (San Marco in Lamis, Bari, Terlizzi, Bitonto). Se nei  tempi passati, moltissimi contadini abruzzesi salivano a piedi il faticoso ed aspro monte, la Montagna dell’Angelo, scalzi, con poco pane e pochissimi soldi, oggi questa tradizione non  è del tutto scomparsa.

All'inizio del mese di maggio, la compagnia di San Salvo parte in treno fino a San Severo. Poi, a piedi, inizia il suo pellegrinaggio con pernottamento a Stignano. Il giorno dopo, da Stignano si reca al convento di san Matteo per raggiungere San Giovanni Rotondo. La mattina successiva, si raccoglie in preghiera e, dopo la celebrazione della santa messa in onore di san Padre Pio, riprende il cammino per giungere, il 2 maggio, al santuario di san Michele. La mattina, tutti i fedeli della compagnia partecipano alla santa messa nella sacra Spelonca e solo dopo si incamminano a piedi per Manfredonia, dove vengono accolti dai parrocchiani e dal parroco della chiesa di san Michele. Un tempo, però, la compagnia, prima di scendere a Manfredonia, andava all'abbazia di Pulsano. Da Manfredonia, il giorno dopo, raggiunge la chiesa dell’ Incoronata, vicino Foggia e da lì si reca a Bisceglie e l'8 maggio raggiunge Bari per la festa di san Nicola. Fino agli anni Ottanta del secolo scorso, molte compagnie, come quelle di Sant’Elia Fiume Freddo, continuavano a percorrere la strada a piedi fino al Santuario. Tra queste, molto autorevole resta  la compagnia di Potenza che, da tempi remoti, per le ricche offerte fatte all’Arcangelo, ha il privilegio di essere accolta al suono festoso delle campane di san Michele. Nei secoli passati, questa compagnia portava in processione  la Ferrizz, una casetta a forma di prisma quadrangolare, formata di “ferule” su cui si mettevano centinaia di candele di varie dimensioni, tenute ferme dai nastri multicolori. Sulla parte anteriore, invece, campeggiava la figura dell’ Arcangelo. La “Ferrizz” è chiamata “la centa” nei paesi del salernitano. Queste usanze  di devozione a san Michele vengono, tutt’oggi, denominate religiosità popolare.

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