Il senso di comunità. Parla mons. Vincenzo Pelvi

In un’intervista fatta a mons. Vincenzo Pelvi, Arcivescovo Metropolita di Foggia - Bovino, si evince il pensiero e l’invito che il prelato fa alla cittadinanza sull'esigenza di tornare ad essere comunità, di superare la tracotanza del sé per incontrare l'alterità e di accogliere l’altro come dono costruisce la fraternità umana, a partire dalla diversità.

L'emergenza sanitaria ha dimostrato che la costruzione di legami sociali e solidali è indispensabile per superare le sfide della modernità. Tuttavia, la spinta a prevaricare l'altro per raggiungere il proprio interesse non sembra placarsi; l'uomo, nella sua sfrenata corsa verso il progresso e la ricchezza, non si cura del prossimo, dilaniando anche l'ambiente che lo ospita. Il senso della comunità, indispensabile per raggiungere un bene che sia di tutti e per tutti sembra essere diventato un pallido fantasma che non riesce a far sentire la propria voce. Una gara di egoismi non può avere vincitori ma solo sconfitti. Per analizzare questi temi, proponiamo di seguito un'interista all'Arcivescovo Metropolita di Foggia-Bovino, mons. Vincenzo Pelvi.

Eccellenza, l'attenzione narcisistica che l'uomo ha per se stesso può rappresentare un vero ostacolo alle relazioni umane...

In questo momento della storia la passione per l’umano, per l’intera umanità, è in grave difficoltà. Le gioie delle relazioni familiari e della convivenza sociale appaiono profondamente logorate. La diffidenza reciproca dei singoli e dei popoli si nutre di una smodata ricerca del proprio interesse e di una competizione esasperata, che non rifugge dalla violenza. La distanza fra l’ossessione per il proprio benessere e la felicità dell’umanità condivisa sembra allargarsi: sino a far pensare che fra il singolo e la comunità umana sia ormai in corso un vero e proprio scisma. Si tratta di una vera e propria cultura – anzi, sarebbe meglio dire di una anti-cultura – dell’indifferenza per la comunità: ostile agli uomini e alle donne e alleata con la prepotenza del denaro.

Secondo lei, il progresso tecnologico potrebbe aiutare gli uomini a vivere meglio, consentendogli di superare le difficoltà che la vita pone?

Questa emergenza rivela un paradosso: come è potuto accadere che, proprio nel momento della storia del mondo in cui le risorse economiche e tecnologiche disponibili ci consentirebbero di prenderci sufficientemente cura della casa comune e della famiglia umana, onorando la consegna di Dio stesso, proprio da esse, dalle risorse economiche e tecnologiche, vengono le nostre divisioni più aggressive e i nostri incubi peggiori? I popoli avvertono dolorosamente, per quanto spesso confusamente, l’avvilimento della paura e della fragilità. La tendenza ad anestetizzare questo profondo disagio, attraverso una cieca rincorsa al godimento materiale, produce malinconia e distruzione. Dobbiamo riconoscerlo: gli uomini e le donne del nostro tempo sono spesso demoralizzati e disorientati, senza visione. Siamo un po’ tutti ripiegati su noi stessi. Il sistema del denaro e l’ideologia del consumo selezionano i nostri bisogni e manipolano i nostri sogni, senza alcun riguardo per la bellezza della vita condivisa e per l’abitabilità della casa comune.

Monsignor Pelvi, come possiamo sollevare lo sguardo da noi stessi e imparare a rivolgerci agli altri?

Raccogliendo il grido delle sofferenze dei popoli, dobbiamo reagire agli spiriti negativi che fomentano la divisione, l’indifferenza, l’ostilità. Dobbiamo farlo non soltanto per noi, ma per tutti. E bisogna farlo subito, prima che sia troppo tardi, anche perché la democrazia non è mai una conquista definitiva. Permane sempre l’esigenza di darle un’anima e un corpo nuovi. Va continuamente legittimata, offrendole un humus che la nutra e la rivitalizzi. Tra le condizioni per la sua esistenza, sono centrali lo stato sociale di diritto, una sfera pubblica non pigra, un sistema rappresentativo efficiente nelle sue forme e integrato dallo sviluppo di iniziative popolari, specie con riferimento ai beni collettivi e soprattutto deve poggiare su di una comunità, intesa come insieme di cittadini uniti, nella comunione di beni-valori, codificati nelle carte costituzionali. Ne consegue l’appello a lavorare insieme per il bene comune. Tutti, giovani e adulti, siamo cittadini del mondo e abbiamo una vocazione al servizio del bene comune.

Quale ruolo possono avere le nazioni e i loro rapporti in questo processo di redenzione?

Ogni Nazione non è un museo, ma un’opera collettiva in permanente costruzione; opera in cui sono da mettere in comune le cose che differenziano. Nasce, perciò, l’esigenza di costruire legami per favorire quell’amicizia sociale, impegno per riconoscersi come una comunità di vita che ha un unico destino. Sentirsi comunità significa condividere valori, prospettive, diritti e doveri, pensarsi dentro un futuro comune da costruire insieme, curando le ferite di legami spezzati e della fiducia tradita. Di qui l’impegno ad investire su di un’Europa e un mondo dei popoli, partendo da una profonda riflessione che permetta di superare i pregiudizi, rivalità istituzionali, forme di veteronazionalismi, egoismi e localismi folkloristici. Oggi appare urgente programmare la formazione di una mentalità europea e mondiale riorganizzata attorno ad una cultura personalistica, relazionale, comunitaria e aperta alla trascendenza.

Essere comunità significa anche darsi delle regole, dei limiti per il bene comune...

Dobbiamo recuperare la dimensione della ragionevolezza, dell’homo sapiens che viene risucchiato spesso dall’homo gaudens, affetto da uno strano virus per cui non sopporta limiti, non ammette regole, non tollera nessun confine ed è soddisfatto perché non vuole scoprire la realtà, anzi vuole dimenticarla. È necessario armonizzare la fatica del pensare, del confronto, dell’approfondimento con la forza delle emozioni, mettendo in campo energie e volontà di formarsi una idea adeguata della complessità dei problemi, cosicché non si confondano le verità con le opinioni. Sul binario culturale si gioca l’incontro tra le generazioni e si rinsaldano patti di stima e solidarietà, capaci di superare frammentazioni e contrapposizioni e ricostruire un tessuto di relazioni solidali e sicure. Investire sulla generatività del pensare, azione che richiede un livello etico alto, contrasta il ripiegamento sull’io e sull’oggi, per coniugare spiritualità e politica, incontro spesso estraneo che infastidisce chi per cinico calcolo riduce il mondo alle dimensioni della propria ristretta cerchia di interessi, deformando il linguaggio e le relazioni al servizio del proprio particolare tornaconto, più che al servizio del bene comune.

La comunicazione, quindi, riveste un ruolo strategico...

In una tale condizione, qualunque scelta o gesto può essere usato come strumento comunicativo per occupare lo spazio della propaganda e del consenso, rivelando un’assoluta noncuranza di rispetto per l’altro (a cui si parla), rispetto per la parola (che viene pronunciata), rispetto per se stessi (cioè il parlante: dire è sempre dirsi). Uno stile di arroganza, di superbia e prepotenza, di sopraffazione verbale prima ancora che fisica, invoca la qualità umana del noi. Occorre la capacità di governare prima che gli altri, se stessi, le proprie debolezze e ipocrisie, le proprie sfrenate ambizioni, così da acquisire autorevolezza e ottenere quella virtù cristiana che si chiama coerenza.

Che ruolo può avere, in quest'ottica, il principio di responsabilità?

C’è una grande responsabilità da esercitare con saggio discernimento, poiché le decisioni prese saranno fondamentali per modellare il mondo di domani e quello delle generazioni future. Pertanto, se vogliamo un futuro più sicuro, un futuro che incoraggi la prosperità di tutti, è necessario mantenere la bussola sempre puntata verso valori autentici. È questo il tempo di prendere misure coraggiose e audaci per il nostro amato pianeta. È questo il momento giusto per tradurre in azione la nostra responsabilità di contribuire allo sviluppo dell’umanità, sostenuto dal desiderio di promuovere il bene comune.

 

Dirigere lo sguardo verso l'altro comporta inevitabilmente un avvicinamento, come farlo diventare vero incontro e non scontro tra punti di vista?

Accogliamo la cultura, la religione e l’etica degli altri senza pregiudizi e senza misurarla con la nostra, mettendoci in ascolto di una presenza che esige una risposta; ascolto che instaura una confidenza reciproca. Chiediamoci: chi è l’altro? Alla domanda Sartre rispondeva: “o è l’inferno o un dono a cui mi dono”. Ognuno è destinatario di doni: dal dono della vita, che non noi ma altri hanno deciso, al dono della parola alla quale altri ci hanno iniziato; al dono dell’amicizia che molti non ci fanno mancare. Inoltre gli oggetti, i beni, la terra e i suoi frutti: tutto abbiamo ricevuto.

Accogliere l’altro come dono costruisce la fraternità umana, a partire dalla diversità. La scelta difronte alla quale ci troviamo è fra la fiducia dell’altro o il sospetto, tra il consegnarsi come Cristo all’umanità o l’armarsi per negare un posto all’altro. Scegliamo di essere tutti fratelli: ecco la linea sacra che è in perfetta sintonia con la volontà divina: sia unico lo sguardo verso l'Alto e verso l'altro.

 

Read 454 times Last modified on Venerdì, 02 Luglio 2021 11:11
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