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Il santuario di San Michele in età bizantina (sec. V-VI)

a cura del prof. Giuseppe Piemontese - Società di Storia Patria per la Puglia.

Alcuni caratteri iniziali del culto micaelico ci portano ad affermare che esso sia giunto sul Gargano direttamente dall’Asia Minore e precisamente da Costantinopoli e trapiantato in zona ad influsso bizantino. Nè ciò può sorprenderci, se pensiamo che la Puglia e con essa anche il Gargano, è stata sempre al centro degli scambi commerciali con l’Oriente. “Naviganti, commercianti, missionari, pellegrini, afferma G. Otranto, hanno sempre assicurato, grazie ai porti di Siponto, Bari, Egnazia, Taranto, Brindisi e Otranto, una notevole circolazione di idee, concezioni ed esperienze tra Puglia e mondo orientale. La via Traiana, poi, durante la Tarda Antichità, contribuì a promuovere ulteriormente i rapporti tra Oriente ed Occidente e fece della Puglia il punto di passaggio più conveniente per quanti dovevano spostarsi da una parte all’altra dell’impero” (Otranto 1990, p. 34).

La presenza bizantina sul Gargano, specie a Siponto, è già evidente nella prima metà del V secolo, allorquando il dominio bizantino si esercitò costantemente lungo le coste e nella parte meridionale. A tale proposito va ricordato che sul finire del V secolo, i Sipontini, rimasti senza vescovo, si rivolsero proprio all’imperatore d’Oriente, Zenone (476-491), che inviò, secondo la Vita sancti Laurentii, un suo parente, appunto il vescovo Lorenzo Maiorano, il quale sarà l’artefice e il fondatore del culto micaelico sul Gargano.

Nella Vita sancti Laurentii si afferma che già al tempo del vescovo sipontino sarebbe stata edificata una  chiesa proprio all’imboccatura della grotta, fondando nel contempo, in prossimità di essa,  un’altra intitolata a S. Pietro,  con altari alla Beata Vergine e a S. Giovanni Battista. Più specificatamente si parla di marmi e arredi in oro giunti dall’Oriente e donati dallo stesso imperatore  per abbellire la chiesa micaelica. L’eco di tanta preziosità è possibile riscontrarla nei versi suggestivi che Flodoardo da Reims dedicò nel X secolo al culto di S. Michele sul Gargano: “Hinc Sipontini grates et vota daturi, / culmina celsa petunt inventaque moenia templi / Lustrantes impressa vident vestigia saxis / Clarificant coeli procerem praesentia cujus / Hoc patet indicio, decorant testudine marmor /  Nobilitant ara atque dato cognomine comunt, / Sacras adjiciunt aedes, penetralia diva / attentare timent pede, limen  inire verentur” (Flodoardi Canonici Remensis opuscola metrica. De Christi Triumphis apud Italiam Libri XIV, 1, XIV cap. 1, PL, CXXXV, coll. 853-854). E’ innegabile che Flodoardo si riferisce agli edifici costruiti dai Sipontini all’imboccatura della grotta angelica e ai marmi policromi che dovevano impreziosire altare e arredi ecclesiastici, di provenienza bizantina. Purtroppo, i recenti restauri dimostrano che se è chiaro l’assetto del santuario in età longobarda, non altrettanto lo è quello di età bizantina, le cui tracce sembrano essere cancellate o per lo meno non ancora individuate. Tuttavia, possiamo affermare che le prime strutture architettoniche di età bizantina si adeguarono sostanzialmente alle originarie strutture naturali della grotta e ciò, evidentemente, in ossequio alla secolare e consolidata tradizione cristiana di non modificare gli  ambienti resi sacri da un evento soprannaturale quale dovette essere l’Apparitio.

        Certamente nell’attuale situazione in cui si sono fermati gli scavi nella grotta, è difficile separare gli ambienti risalenti alle diverse fasi cultuali, da quella precristiana a quella dell’Apparitio e quindi della ricostruzione bizantina, fino a quella della ristrutturazione longobarda. Tuttavia alcuni riferimenti archeologici cominciano ad essere chiari. Il rilevamento topografico della caverna arcangelica ha consentito di verificare la corrispondenza dei dati fisici ed archeologici con quelli letterari offerti dall’Anonimo del Liber de apparitione.

 L’individuazione del primitivo ingresso settentrionale ha portato a riconoscere nella cavità minore dell’antro il primo nucleo monumentale del culto di S. Michele e a ipotizzare la collocazione del Sasso delle impronte nel punto più basso ed avanzato del corpo roccioso. Inoltre, lo studio orografico della zona antistante all’imboccatura ha rilevato che l’estensione del culto sull’intera superficie dello speco fu resa possibile con la costruzione di un lungo porticato che, superando una vasta depressione naturale, venne a collegare le due cavità, separate da un grosso setto di roccia. L’historia micaelica viene colta così come memoria fedele di una tradizione devozionale stratificata, che l’Anonimo ricostruisce attraverso luoghi già ai suoi tempi trasformati, e come realizzazione puntuale di un preciso tempo cultuale, il VI secolo, che si esprime con le prime fabbriche monumentali. Esse sono ben documentate nell’Apparitio allorquando vi si legge: “et ecce longa porticus in aquilonem porrecta atque illam attingens ianuam, extra quam vestigia marmori diximus impressa; sed priusquam huc pervenias, apparet ad orientem basylica grandis, qua per gradus ascenditur. Haec cum ipso porticu suo quingentos fere homines capere vedebatur, altare venerandum rubroque contectum palliolo prope medium parientis meridiani ostendens” (Apparitio, 5, 4-9). É l’esatta descrizione degli ambienti sottostanti il pavimento dell’attuale chiesa-grotta, la cosiddetta navata

angioina, costituiti da una galleria voltata, in origine porticata, lunga 40 metri, suddivisa in campate da archi trasversali e da un ambiente diviso in due navate, occupate rispettivamente da una scala ad andamento rettilineo e da una scala “tortuosa” che porta direttamente alla cripta C, che è l’ambiente più antico, a cui è legata l’origine stessa del culto micaelico e che evidentemente esisteva prima ancora che sopraggiungessero i Longobardi, i quali solo successivamente  avrebbero apportato alcune modifiche alle strutture del santuario, fra cui la costruzione della “longa porticus”, che si sviluppava sul lato settentrionale (in aquilonem porrecta), a valle della cavità maggiore, andando, poi, a raggiungere, nella parte sud, l’altare delle Impronte. Varcata la galleria porticata ci si immetteva nella cripta B che si estende dalla grande muraglia di sostegno della superiore facciata di prospetto della navata, fin sotto l’attuale coro della basilica e sotto i gradini dell’altare del sacramento. “Il suo impianto, afferma C. D’Angela, è molto irregolare: si sviluppa in lunghezza per circa m. 16, mentre in larghezza raggiunge circa m. 6 sul lato ovest e circa m. 4 su quello est. Tale irregolarità planimetrica rispondeva, evidentemente, alla necessità di non alterare il luogo  cconsacrato  dall’apparizione dell’Arcangelo” (D’Angela 1980, p. 368). L’interno di tale ambiente è diviso in due navate, delle quali quella di sinistra è più ampia, scandita ai lati e al centro da tre archi a tutto sesto, che poggiano sulle mensole di grossi pilastri. Le prime due archeggiature del lato sinistro (nord) si presentano tamponate, ma in origine erano aperte e costituivano dei veri e propri ingressi. Da uno di questi ingressi entrò nell’867 il monaco Bernardo, il quale visitò il santuario garganico prima di imbarcarsi a Taranto per la Terra Santa. Quindi, uno degli ingressi al santuario era ancora in uso alla fine del IX secolo, lo stesso che evidentemente venne tamponato dopo il saccheggio dei Saraceni nell’869. Il lato destro, il cosiddetto muro continuo del Quitadamo, era anche tamponato da archeggiature, che delimitavano quel lato della navata minore dal pendio roccioso. La copertura, distrutta durante i restauri per il rifacimento del pavimento della chiesa angioina, che non poggiava, come si riteneva, sulla roccia, ma sul terreno di riempimento, era a botte, sostenuta da archi trasversali. La navata destra accoglieva, come abbiamo detto, una scala con andamento curvilineo detta dal Quitadamo “tortuosa”. Essa serviva a collegare la cripta B con l’atrio interno della grotta, dove vi era l’altare di S. Michele. L’altra scalinata a sinistra serviva invece da deflusso dei pellegrini. I tratti murari di sostegno erano affrescati con immagini tratte dell’Apparitio. “Alcuni affreschi, afferma il D’Angela, potrebbero risalire al IX secolo; il monaco Bernardo parla di un’immagine dell’Arcangelo sul lato orientale dell’edificio che potrebbe essere quella rinvenuta nel vuoto della scala dritta: l’ipotesi è suggestiva. La restante decorazione parietale può essere stata eseguita verso il X secolo” (D’Angelo 1980, p. 370), accostandola all’ambito romano campano e più specificatamente agli affreschi della chiesa di S. Vincenzo al Volturno. L’esecuzione di questo programma di arricchimento iconografico e decorativo del santuario comportò la copertura e la distruzione di numerosi graffi e iscrizioni antecedenti il IX secolo. Quanto abbiamo riferito, data la complessità delle strutture architettoniche e la monumentalità dell’edificio, sta ad indicare il protrarsi nel tempo dei lavori e il notevole impegno finanziario dei committenti. Probabilmente i lavori ebbero inizio già al tempo di Lorenzo Maiorano, per poi continuare al tempo della dominazione bizantina, per tutto il VI secolo. Purtroppo è difficile determinare con esattezza gli ambienti fatti costruire dal vescovo Lorenzo Maiorano, tuttavia possiamo affermare che già alla fine del VI secolo gli ambienti descritti erano sostanzialmente terminati. Ciò grazie all’intervento e alla committenza dei Bizantini, sotto la cui giurisdizione cadeva Siponto e il santuario di S. Michele. Non bisogna dimenticare che già al tempo di Lorenzo Maiorano erano presenti sul Gargano artisti bizantini, mandati espressamente dall’imperatore Zenone per edificare la chiesa di S. Michele. Che i Bizantini avessero a cuore il culto di S. Michele era ben noto,  perché le sue origini derivavano, come sappiamo, direttamente da Costantinopoli, dove esistevano, già nel IV secolo, diversi “Michaelion”. Purtroppo poco noti sono gli interventi diretti dei Bizantini nelle fondazioni e rifondazioni di nuovi edifici sacri sul Gargano. A tale proposito dell’esistenza di una costruzione dedicata a S. Michele dai Bizantini si parla anche in riferimento a un pellegrinaggio al santuario micaelico effettuato da S. Artellaide, e riportato  in due diverse redazioni della  Vita della santa, che colloca cronologicamente gli avvenimenti alla metà circa del VI secolo (556). Artellaide era una giovane bizantina, figlia di Lucio proconsole a Costantinopoli all’epoca in cui era imperatore Giustiniano.  Fuggita dalla capitale per non sottostare ai desideri dell’imperatore, si diresse per terra a Valona (Bulona), sulla costa dell’attuale Albania, per raggiungere, attraverso il mare, lo zio a Benevento: un certo Narsus  Narsete, che viene identificato col comandante delle truppe bizantine in Italia. Arrivata a Siponto dopo varie vicissitudini, la giovane fu avvicinata, secondo quanto ci testimonia la prima delle due redazioni della Vita, da un personaggio non meglio identificato che le fece richiesta di denaro per effettuare alcuni lavori, che aveva in animo di fare, “in ecclesia sancti Michaelis quae sita est in monte Gargano”. Artellaide però preferì salire di persona sulla montagna sacra e dopo aver pregato sull’altare dell’arcangelo “pro opere ipsius ecclesiae dedit triginta aureos”,  fece ritorno a Siponto. Tutti questi interventi si inquadrano in un’azione di restaurazione spirituale che si verificò proprio con la ripresa del dominio bizantino dopo la guerra greco-gotica (535-553). Ripresa che coincise con la diffusione del culto micaelico in aree legate più o meno direttamente a Bisanzio o comunque alla cultura greca. Testimonianze di chiese dedicate a S. Michele ne abbiamo a Ravenna, a S. Angelo di Romagna, a Napoli sul monte Tancia nel Lazio, a Olevano sul Tusciano, in territorio campano. Ormai, afferma A. Petrucci, “il santuario sorto sulla cima del  monte Gargano, per il prestigio conferitogli dalla leggendaria apparizione, per il fascino del luogo, per le proprietà taumaturgiche dell’acqua che vi sgorgava, divenne il luogo più importante del culto micaelico in Italia, e perciò anche un modello ideale da imitare nell’erezione di nuove sedi dedicate alla devozione angelica” (Petrucci 1971, p. 342).

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