“Le sfide dell’uomo contemporaneo nell’era della globalizzazione”, il libro del prof. G. Piemontese

È stato pubblicato, per conto della Casa Editrice BastogiLibri, il volume del Prof. Giuseppe Piemontese, Le sfide dell’uomo contemporaneo nell’era della Globalizzazione, Roma 2020, f/a colori n. 47, pp. 532, Euro 48,00, dove nella prima parte, Il ritorno delle frontiere, si analizzano le conseguenze della crisi della modernità. Una crisi che certamente nasce da lontano, ma che ha ripercussioni nella vita quotidiana di tutti noi, tanto da creare un mondo alquanto problematico ed inquietante, sia sul piano socio-economico, quanto psicologico, specie se il tutto viene rapportato alla mancanza di fiducia nel domani, in un pianeta ormai privo di prospettive per quanto riguarda il rispetto dell’ambiente, la stabilizzazione della popolazione mondiale, la riduzione del divario fra ricchi e poveri e quindi le disuguaglianze sociali, infine, oggi più che mai, l’aggravarsi dei flussi emigratori, che sta diventando sempre più drammatico e che coinvolge ormai buona parte del pianeta. Un mondo, quindi, instabile, non solo per quanto riguarda la salvaguardia della vita, ma soprattutto per quanto riguarda i fenomeni di instabilità sociali e politiche. Tutto ciò ci porta a riflettere sul destino dell’uomo e, quindi, della Terra, nell’ambito di una progressiva decadenza, non solo economica e sociale, quanto morale, che coinvolge il destino stesso dell’uomo e la sua sopravvivenza. Un destino in cui l’uomo non è più padrone di se stesso e della sua capacità di condizionare il proprio futuro, specie se il tutto, ormai, viene collegato a forze distruttive, che non hanno alcun rispetto della vita. Né la tecnologia, anche se sta facendo passi da gigante verso l’atomizzazione, ci aiuta a difenderci da queste forze violente, che tendono a distruggere ogni cosa, fra cui quegli stessi valori su cui fino a ieri si è costruita la convivenza umana. Forze endogene all’uomo stesso, che tendono a scardinare l’idea stessa di progresso e, quindi, di civiltà.
La seconda parte del libro, intitolata L’età della violenza, nasce dalla consapevolezza che viviamo in un mondo globalizzato, in cui a determinare la nostra vita, ormai, sono lo sviluppo scientifico, la tecnologia e l’economia. Tre dimensioni che hanno annullato la politica e quindi il potere dell’uomo di decidere del proprio destino, a livello culturale e morale. Due dimensioni che ormai sono scomparse nell’ambito dell’Homo aeconomicus, in quanto, ormai, tutto è basato sulla logica del profitto e quindi sull’accumulo della ricchezza. Tutto ciò ha prodotto, secondo molti studiosi, fra cui sociologi, economisti e , la crisi della modernità, la stessa che, fino al primo Novecento, ha retto mondo attraverso la razionalità e il senso della solidarietà fra i popoli, spinti dall’idea di progresso e dalla speranza di migliorare il proprio tenore di vita. Con la crisi della modernità, è venuto meno, innanzitutto il processo solidaristico dell’uomo verso gli altri, mettendo in crisi innanzitutto il Welfare State, che è stato una conquista non di poco conto della modernità fino agli anni Settanta del Novecento. Tutto ciò ci porta a considerare la nostra età, come l’età della violenza, che nasce innanzitutto dal disagio della nostra civiltà legata alla tecnologia, allo sviluppo delle scienze, alla crisi dell’ambiente con il fenomeno del riscaldamento terrestre e, sul piano ideologico, il fenomeno della globalizzazione.
Un mondo, quindi, in cui tutto diventa relativo e in cui predomina l’ansia di vivere una vita reale, una vita che non sia solo virtuale. In altri termini, una vita in cui tutto diventa disagio mentale, sia attraverso la propria psiche, sia attraverso il proprio habitat, diventato ormai nemico dell’uomo, privo della sua dimensione culturale e identitaria. In questo senso c’è un rapporto convalidato fra ambiente e disagio mentale, fra l’essere per il mondo e l’essere nel mondo. Henri Lefebvre afferma che, ormai, abbiamo smarrito il senso dell’appartenenza alla propria città e, quindi, il senso della storia e della cultura dei luoghi. Per questo bisogna riaffermare il diritto alla città, che vuole significare costruire una città a dimensione d’uomo, lontano da ogni logica basata sul profitto e sull’uso indiscriminato del suolo. Una città che sia la proiezione della società in rapporto al territorio in cui si vive. In questo senso David Harvey propone il superamento dell’ideologia del neoliberalismo e, quindi, un ritorno alla dimensione sociale della città, con i suoi temi collettivi e il senso di appartenenza, legato al vivere quotidiano della gente. In altre parole, bisogna ritornare ad approfondire, come afferma Paolo Cianconi, il rapporto fra territorio e individuo, eliminando tutto ciò che provoca disadattamento e disagio mentale, specie oggi, in cui uno dei fenomeni più inquietanti è il flusso emigratorio dei paesi poveri verso l’Europa, i cui effetti li troviamo soprattutto nelle grandi metropoli, dove si sviluppano sempre di più le grandi periferie, abitate da popolazioni di emigranti, ma anche da gente ormai diventata povera a causa della crisi economica e sociale. Un mondo di periferie, dove regna la miseria, la povertà, la violenza, l’alienazione, che spesso sfocia nel disagio mentale e, quindi, nella follia. Un “circolo orizzontale” fatto di miseria e di povertà, con grandi masse di individui che vivono ai margini della grande ricchezza, ormai appannaggio di pochi (1%), mentre la povertà raggiunge quasi il 99%. Da ciò nasce l’esigenza di andare oltre la globalizzazione, il cui fenomeno, al di là di alcuni aspetti positivi riguardanti la interconnessione della gente e delle merci, produce solo grandi squilibri sociali e territoriali, oltre che una grave e persistente “frattura”, fra paesi ricchi e paesi poveri. Per non parlare poi della delocalizzazione, che crea seri problemi di sviluppo e di crescita dei territori e delle loro popolazioni, costrette a vivere in un territorio senza cultura e senza storia. È per questo che, ormai, si sente l’esigenza di voltare pagina, di riacquistare di nuovo la “coscienza dei luoghi”, come afferma Giacomo Becattini, la loro “anima”, rivolgendo l’attenzione soprattutto verso uno “sviluppo locale generalizzato”, basato sulle specificità culturali del territorio, visto nella sua complessità socio-economica, culturale e paesaggistica. Solo così è possibile superare l’attuale crisi della postmodernità, con un processo di democratizzazione della cultura, ma soprattutto con una nuova “economia” che non sia disgiunta dai veri bisogni della gente, all’insegna della responsabilità politica e della speranza in un mondo migliore.
Nella terza parte del libro, intitolata L’età della paura, si parla del passaggio dalla Rivoluzione agricola alla Rivoluzione industriale, che ha determinato, all’inizio del XVIII secolo, la nascita del Capitalismo e di conseguenza del Liberalismo, attraverso una vera e propria trasformazione del sistema economico, basato sul libero mercato e quindi su un processo di rapida globalizzazione che ha interessato, dagli anni Ottanta del Duemila, l’intero sistema economico-finanziario degli Stati a livello mondiale. Tutto ciò ha creato, da una parte l’allargamento degli scambi economici a livello mondiale e, quindi, un maggiore sviluppo di alcuni Stati, specie quelli occidentali, e dall’altra un arretramento, per quanto riguarda la sperequazione fra ricchi e poveri, con una evidente crisi specialmente del ceto medio, creando così una società disuguale, tanto da determinare, come abbiamo detto, la teoria dell’1% di ricchi, rispetto al 99% di poveri. Tutto questo è avvenuto nell’ambito di un processo di finanziarizzazione dell’economia, a discapito dell’economia reale e a vantaggio della finanza e del mercato globale. In questo modo, viene ad essere sacrificata l’economia reale e, quindi, il benessere generalizzato della gente, che subisce i maggiori contrappunti e conseguenze dell’attuale crisi socio-economica. Tutto questo, inoltre, sta producendo da una parte la crisi dei vecchi partiti politici e quindi in generale della politica, che non riesce più a governare la situazione economica e sociale, con una evidente conseguenza di crisi dello Stato e della sua azione di governo, dall’altra la nascita di movimenti populisti, che tendono a scardinare il sistema economico della globalizzazione, privilegiando il ritorno del sovranismo e delle politiche locali. Questo passaggio dal sistema globale al sistema locale sta producendo però ansia e paura, in quanto il tutto poggia su basi non ancora solide (la cosiddetta “società liquida”) e su attese e speranze di una futura crescita economica e sociale. Né la politica di austerità, portata avanti da Bruxelles verso gli Stati in difficoltà, come la Grecia, il Portogallo e l’Italia, ha favorito tale crescita, anzi ha limitato e contenuto lo sviluppo. Tutto questo, in un clima in cui manca- no certezze e speranze, mentre prosperano paura, ansia, rancore e risentimenti. A questo punto ci si chiede: Quale futuro ci riserva il domani? Forse un domani senza futuro, in cui i vecchi valori, come il progresso, la libertà, la democrazia, la scienza, ormai sono messi in discussione, per far posto a forme di autoritarismo e di disuguaglianza generalizzata, in un mondo fatto solo di precarietà e di incertezze, tanto da farci prefigurare un futuro fatto di fallimenti. Quindi, un domani senza “storia” e senza “speranza”. Da tutto questo nasce la voglia di comunità, cioè un senso di solidarietà generalizzata, specialmente di fronte a fenomeni come la pandemia da Coronavirus, che ha messo in discussione il fenomeno stesso della globalizzazione e quindi della postmodernità, basata soprattutto su determinati valori come l’economia globalizzata, senza quel senso di territorialità su cui fino a pochi decenni si basava la nostra società nata dall’Illuminismo e dalla modernità.

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