Dentro i confini. Una storia di civiltà e di sangue

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La perdita del senso di territorialità e del senso di appartenenza ha fatto sì che, con l’arrivo della globalizzazione, specialmente dagli anni Ottanta del Duemila,  si creasse un clima di sfiducia e di mancanza di autorità da parte della gente verso il proprio Stato o il proprio governo, creando così il terreno fertile per la nascita di movimenti populisti e sovranisti che si stanno sviluppando in quasi tutti gli Stati occidentali. Ciò che è importante, oggi, è che tale stato di precarietà e di sfiducia nel governo degli Stati e nel governo del proprio territorio sta creando un clima di odio e di conflittualità contro ogni forma di accoglienza dei migranti provenienti purtroppo da zone disagiate e da Stati, come l’Iraq, l’Afghanistan, la Siria, la Giordania, il Libano, che in questi ultimi anni stanno conoscendo la guerra e lotte intestine fra etnie, religioni e partiti politici contrastanti. Un clima che sta alla base della diffusione del fenomeno delle migrazioni  e, quindi, dell’erezione di muri e di nuove barriere da parte degli stati confinanti, ma anche da parte delle nazioni più ricche, come i paesi europei, per difendere e conservare la loro sovranità, ma soprattutto la loro territorialità. In questo senso si ha oggi un ritorno al senso di territorialità e di appartenenza, che purtroppo si basa principalmente sulla discriminazione non solo razziale e quindi etnica, quanto sul piano culturale e spesso religioso. 

E a tale proposito C. S. Maier nel suo libro  Dentro i confini.  Territori e potere dal 1500 a oggi (Einaudi, Torino 2019), afferma  che il concetto di territorio ha subìto nell’arco dei secoli una evoluzione in senso restrittivo, proprio in seguito a diversi fenomeni, fra cui il fenomeno delle migrazioni e del fenomeno della globalizzazione. Purtroppo, la globalizzazione, che avrebbe dovuto portare ad un progressivo abbattimento delle barriere rimaste, è stata in realtà causa di rinati timori sulla sicurezza. Un terzo dei paesi del mondo presenta attualmente recinzioni, di diverse tipologie, lungo i suoi confini. Da ciò si presume che stiamo ritornando ad un mondo in cui i confini tendono a diventare delle barriere invisibili di difesa e di protezione. Barriere che ormai stanno diventando, come stiamo vedendo nel mondo arabo, ai confini di Israele, veri e propri muri fisici, barriere invalicabili per tanta gente che fugge dalle guerre e dal riscaldamento del clima. Se un tempo il territorio è diventato una risorsa importante per lo sviluppo degli Stati e delle economie, fino a diventare, in alcuni casi, come stiamo vedendo oggi, un’ossessione, oggi, con la globalizzazione, il concetto di territorio è stato minato dalla base, in nome del libero mercato e di una politica geoglobale, fondata sulla eliminazione di ogni barriera e di ogni ostacolo al libero commercio. Purtroppo oggi tutto ciò è messo in discussione.

La territorialità non sembra più una risorsa per garantire i mezzi di sussistenza, escludere gli stranieri, o mantenere la coerenza dei valori. Non fornisce più la stessa capacità di controllo, anche se i territori rimangono il nucleo di fedeltà primaria. Spazio identitario e spazio decisionale tendono ormai a divergere. C. S. Maier è convinto che la globalizzazione può minare la capacità di governare il territoriale, cioè erodere lo spazio decisionale, anche se non necessariamente indebolisce lo spazio identitario, la presa dell’immaginazione territoriale e forse neppure la persistenza ostinata delle frontiere. A tale proposito Tim Marhall, nel suo libro  I muri che dividono il mondo (Garzanti, Milano 2018), parla di muri, di confini invalicabili fra stati e nazioni. Egli afferma: “Siamo tornati a costruire muri. Sono, infatti, oltre 6000 i chilometri di barriere innalzati nel mondo negli ultimi dieci anni. Le nazioni europee avranno ben presto più sbarramenti ai loro confini di quanti non ce ne fossero durante la guerra fredda. Il mondo a cui eravamo abituati sta per diventare solo un vecchio ricordo: dalle recinzioni elettrificate costruite tra Botswana e Zimbabwe a quelle nate dopo gli scontri del 2015 tra Arabia Saudita e Yemen, dalla barriera in Cisgiordania fino al mai abbandonato progetto del presidente Donald Trump al confine tra Stati Uniti e Messico. Non appena una nazione si appresta a far nascere un nuovo muro, subito i paesi confinanti decidono di imitarla: quello tra Grecia e Macedonia ne ha generato uno tra Macedonia e Serbia, e poi subito un altro si è alzato tra Serbia e Ungheria. Innumerevoli sono le ragioni alla base di queste decisioni spesso dettate da paura, disuguaglianze economiche, scontri religiosi”. Altrettanto afferma  D. Frye nel suo libro Muri. Una storia della civiltà in mattoni e sangue (Piemme, Milano 2019).  Così si legge nella scheda di presentazione:Per migliaia di anni, l’umanità ha vissuto dentro e dietro a muri. Muri di confine, città fortificate, barriere hanno separato e protetto le popolazioni dal nemico, dall’estraneo, o semplicemente dall’ignoto. Per migliaia di anni, gli uomini hanno costruito muri, li hanno assaltati, ammirati e oltraggiati. Grandi mura sono apparse in ogni continente, hanno accompagnato il sorgere di città, nazioni e imperi, eppure il loro ruolo è poco studiato nei libri di storia. Quali influenze avranno avuto i muri sul modo di vivere, pensare e creare di chi viveva al di qua e al di là di essi? Per stare ai tempi recenti, basti pensare al Muro di Berlino e a come ha modellato non solo la vita quotidiana dei berlinesi, ma anche l’immaginario complessivo del secolo scorso”. Un bisogno e una necessità che purtroppo rimangono attualissimi, come spiega Frye, perché in tutto il mondo i Paesi stanno costruendo – anche ora – muri e barriere, tanto da decidere  di eliminare, per esempio, dalla carta geografica, lo Stato di Israele e i suoi confini, con il mondo islamico, fra cui l’Iran, la Siria, il Libano, la Giordania.  Oggi, sottolinea  Frye, ci sono più di 70 paesi diversi che  hanno fortificato i loro confini, tanto che   i muri vengono eretti anche per prevenire l’immigrazione, il terrorismo, il flusso di droghe illegali e, oggi, anche la diffusione di malattie infettive, come il “coronavirus”. Tant’è vero che dentro e fuori le mura, spiega sempre Frye, si svilupparono stili di vita molto diversi. Quando i muri protettivi sorsero in tutto il mondo, influenzarono il modo in cui le persone vivevano, lavoravano e combattevano. Anche se più di ogni altro singolo fattore, i muri sono stati i diretti responsabili dell’ascesa della civiltà. Lo dice la storia dell’umanità. Chi sostiene il contrario tifa il caos e le barbarie.

 

Il mondo islamico a Israele e i suoi confini

[Il mondo islamico a Israele e i suoi confini]

Robin Cohen, con  Migrazioni. Storia illustrata di popoli in movimento (Giunti, Firenze 2019),  pone l’accento sul fenomeno migratorio, da cui sono scaturiti, specie in questi primi  anni del Secondo Millennio, i vari muri nel mondo. Del resto, si desume dalla lettura del testo che: “Le migrazioni esistono fin dagli albori dell’umanità, ma in anni recenti dominano le prime pagine dei giornali e i titoli dei TG come mai prima d’ora”. Il libro del professor Robin Cohen indaga tutto l’arco della storia per offrire un quadro di uno dei fenomeni umani più antichi. Se il fenomeno delle migrazioni è vecchio come il mondo, perché ora è un argomento tanto rilevante a livello politico? Perché i migranti partono? Dove vanno, in quanti e per quali motivi? I migranti rappresentano una minaccia per l’ordine sociale e politico? Sono necessari per fornire manodopera, portare sviluppo nei paesi d’origine, aumentare il consumo e generare ricchezza? Le migrazioni si possono fermare? Su questi e su molti altri interrogativi indaga Robin Cohen. Sullo stesso argomento è uscito in questi ultimi giorni il libro di Gaia Vince,  Il secolo nomade. Come sopravvivere al disastro climatico (Bollati Boringhieri, Torino 2023), in cui  l’autrice esplicitamente afferma che “saranno in qualche modo proprio le migrazioni a salvarci… Le migrazioni sono ciò che ci hanno resi ciò che siamo, un aspetto imprescindibile della natura della nostra specie. Centinaia di migliaia di anni fa, i nostri antenati hanno sviluppato l’adattabilità a vivere ovunque. Dal punto di vista storico, sono le nostre identità e i nostri confini nazionali a costituire l’anomalia”.

Tutto ciò ha influito, inoltre, sull’immaginario collettivo, cambiando così gli attributi del territorio che sono cambiati in modo rapido e radicale, tanto da minare dalla base quello che era il concetto di territorio e, quindi, di un mondo stabile. Purtroppo, con la globalizzazione è venuto meno progressivamente il senso di appartenenza, non solo delle persone all’interno del proprio territorio, quanto anche delle cose, tanto da creare la sensazione che tutto è basato sul libero scambio, a vantaggio non del proprio benessere ma delle regole del mercato. Inoltre, viene meno il senso identitario, che un tempo permetteva  di essere un tutt’uno con il proprio territorio. Oggi tale senso è scomparso in quanto vengono meno la sicurezza del lavoro e, quindi, la stabilità familiare.  In altri termini, la territorialità non sembra più una risorsa per garantire i mezzi di sussistenza, giungendo, come si vede, anche ad escludere gli stranieri dal proprio territorio, contravvenendo ad alcuni valori di solidarietà e di accoglienza.

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