A cura del prof. Giuseppe Piemontese, Società di Storia Patria per la Puglia.
Viviamo un momento difficile, in cui la pandemia da Coronavirus ha messo in discussione alcune certezze che hanno caratterizzato la nostra vita negli ultimi decenni e precisamente il passaggio da una economia locale ad una economia globalizzata, con il rapido e a volte selvaggio processo di urbanizzazione delle nostre città, costruite secondo spazi chiusi, dove a fare da padrone sono sempre più le periferie, luoghi senz’anima e senza identità, quasi come se fossero città fantasma, con un allargamento dello spazio verso il nulla, dove la campagna e il suolo rurale diventano sempre più prede del capitalismo e quindi del profitto. Ed ecco allora che il Covid - 19 ha fatto si che attraverso il lockdown mettesse in discussione tutto questo attraverso il rinchiudersi in se stessi, ma soprattutto attraverso una presa di coscienza della propria identità e, quindi, dello stare in solitudine, con i propri pensieri e le proprie problematiche esistenziali. Da ciò nasce il desiderio di un nuovo modo di vivere e di rapportarsi con l’esterno, non più in maniera superficiale e, quindi, anonimo, ma in maniera tale che i luoghi siano lo specchio della nostra identità e della nuova coscienza e, quindi, delle nostre comunità. Per cui, di fronte ad un ritorno alla normalità, dopo quasi cinque mesi di lockdown, sentiamo sempre più l’esigenza di aprirci verso l’esterno e quindi verso una nuova dimensione urbana, che sia lo specchio della nostra voglia di vivere, ma soprattutto di riacquistare quello spazio vitale che è la città diffusa.
In questo il Coronavirus ha avuto un effetto positivo nel creare in noi una nuova coscienza di riappropriarci della nostra città attraverso luoghi aperti e quindi luoghi che rappresentano quella identità culturale che si manifesta principalmente in luoghi come le piazze, le chiese, le cattedrali, i castelli, i nostri palazzi storici, ma soprattutto i nostri luoghi dell’anima, come per esempio quelli che un tempo caratterizzavano le piazze del nostro centro storico oppure i luoghi rappresentativi del centro urbano. Tutto questo, oggi, lo posiamo vedere nella nostra città, Monte Sant’Angelo, attraverso varie istallazioni di strutture turistiche, con tavolini e sedie all’aperto, davanti a bar e centri commerciali, tanto da avere la sensazione che la città si è aperta verso l’esterno e quindi verso la comunità cittadina. Una città che finalmente torna a vivere attraverso la sua dimensione urbana, ma soprattutto attraverso il proprio essere in simbiosi con l’ambiente, sia essa culturale che sociale e quindi identitaria, rafforzando così il senso di appartenenza e quindi il senso comunitario. Una città che si riappropria degli spazi pubblici, all’aperto, lungo il corso della città, nelle piazze e nelle strade, intesi come luoghi in cui un tempo la comunità viveva il suo essere per la città. Quindi, un modo nuovo di abitare gli spazi pubblici e questo lo dobbiamo grazie all’Amministrazione d’Arienzo e agli Assessori Michele Fusilli e Giuseppe Totaro, rispettivamente responsabili dell’Urbanistica e Arredo pubblico e alla Mobilità e Sicurezza, con delega al verde pubblico.
Tutto questo ci porta, tuttavia, a richiamare i nostri politici a interessarsi maggiormente della nostra città, delle sue periferie, dei suoi quartieri o rioni, ma soprattutto del Centro storico, che dovrebbe essere maggiormente tutelato e valorizzato, in nome di una città diffusa, una città integrata, vista come luogo aperto, polifunzionale, in cui fanno da padrone piazze, giardini, giochi per bambini, centri sportivi efficienti, biblioteche di quartiere, negozi, sale da concerti, monumenti. Insomma una città liberata dall’urbano ad ogni costo, con luoghi di pubblica bellezza, dove la città diventi città-giardino, una città aperta verso la bellezza della natura, ma anche verso tutto ciò che il passato ha voluto tramandarci, come i dolmen e i menhir di Valle Pulsano, scoperti dell’arch. Raffaele Renzulli. Una città che diventi città d’arte, luogo della memoria storica e quindi luogo della nostra identità e della nostra cultura.
In questo senso la città è lo specchio della nostra capacità di reinterpretare il nostro passato e quindi la nostra cultura, per poi progettare il nostro futuro, attraverso momenti di bellezza, di condivisione e di amor loci. In altre parole si devono creare le condizioni per una città intesa come città in divenire e quindi come città condivisa. In questo discorso diventa imperativo il recupero e la rigenerazione del nostro Centro storico, quale elemento principale della nostra identità culturale. Quindi, una città-territorio, una città dove siano recuperati soprattutto i luoghi della memoria, i luoghi di incontri e di condivisione sociale, come le piazze, le strade, i musei, i luoghi pubblici, i monumenti, preferibilmente di autore, i giardini, che purtroppo sono ancora abbandonati e dove un tempo vi era vita di comunità.
Una nuova cultura del verde e quindi della bellezza, che dovrebbe interessare l’intera città, ma soprattutto le zone periferiche e i territori circostanti la stessa città. Afferma a tale proposito Renzo Piano: “Nella città diffusa vedo la campagna più attrezzata e una città più verde, ricca di parchi e giardini. Un verde che ha il compito di limitare la crescita disordinata della città e di ricucire le periferie”. In questo modo si fa rivivere la città attraverso la campagna, fermando l’esodo dei giovani verso il Nord e quindi creare le condizioni per una nuova economia verde o Green economy. E a tale proposito c’è bisogno di recuperare e rigenerare il periubano, un tempo essenziale per la crescita della nostra città. Del resto la campagna è il luogo dove l’umanità si è formata e si nutre, mentre la città è il luogo dove l’umanità si riproduce e crea la vita.