La società del disagio

a cura del prof. Giuseppe Piemontese - Società di Storia Patria per la Puglia.

Alain Ehrenberg, in un suo libro  La società del disagio. Il mentale e il sociale (Einaudi, Milano 2010),  ci parla di un mondo sempre più complesso, rispetto al passato, in cui si manifestano tutti i sintomi di una società del disagio, e quindi del malessere sociale. Un mondo in cui al centro vi è la salute mentale, versi cui gli studiosi, solo dagli anni Settanta, hanno iniziato a fare ricerca e a delineare il campo attraverso interventi mirati a sollevare le persone da uno stato di disagio mentale diffuso, che oggi va sotto la denominazione di depressione. Parola che fino agli anni Settanta non si conosceva, oppure non era che una sindrome associata a molte altre malattie mentali. Invece, dagli anni Settanta di essa si è incominciata a interessare la psichiatria, tanto da far affermare che forse è il disturbo mentale più diffuso nel mondo.  A. Ehrenberg vi ha dedicato diversi anni di studio e diversi libri, fra cui ricordiamo  La fatica di essere se stessi (Einaudi, Milano 1999),   che ha avuto un grande successo e ha aperto la strada agli studi sulla depressione e quindi sul disagio mentale.  Nel libro si vuole dare una risposta alle tante domande che provengono dalla società, ma specialmente dalle persone affette da questa malattia, che ormai colpisce quasi il 20-30 % delle persone.  Ehrenberg afferma che: “La depressione è intrinseca, strettamente legata a una società come quella contemporanea, dove le norme della convivenza civile non sono più fondate sui concetti di colpevolezza e disciplina, ma sulla responsabilità e sullo spirito d’iniziativa”. La depressione nasce dal non essere ormai all’altezza di ciò che gli altri si aspettano, oppure di non essere uguale agli altri, o a canoni ormai decodificati e prescritti dalla società. Tutto questo crea i presupposti, a livello generale, per una società di disagio, incapace di dare un senso non solo a livello individuale, ma anche e soprattutto a livello comunitario.  “Fra i sintomi che riemergono nel contesto di una depressione, afferma Eugenio Borgna, nella Prefazione al libro, Ehrenberg sottolinea in particolare l’importanza dell’ansia, della insonnia e soprattutto della fatica ad essere se stessi (della inibizione), anteponendo questi sintomi a quelli della tristezza, del dolore morale e della colpa. La depressione è intesa, così, come una patologia dell’azione e non come una perdita della gioia di vivere” (Ehrenberg, 2010, p. XVIII-XIX). In questo senso vi è una fatica  eccessiva di vivere rispetto alla normalità. La fatica di prendere iniziative e, quindi, di realizzare le cose. Ehrenberg trova le cause di tutto ciò nei paradigmi sociali, con cui è costituita la nostra cultura, che si caratterizza attraverso la realizzazione di progetti, di motivazioni e di comunicazione. È come ci si trovasse di fronte ad un essere senza tempo, in quanto esso rappresenta il futuro, l’avvenire. Afferma E. Borgna: “La inibizione, in particolare, alla quale è legata l’esperienza soggettiva di fatica e di scacco nella realizzazione personale e sociale, si costituisce come una modalità di vivere inconciliabile, in ogni sua forma e in ogni sua dimensione clinica, con l’immagine che la società richiede a ciascuno di noi; e la coscienza di questo crudele fallimento sul piano della responsabilità e della iniziativa dilata (amplifica) immediatamente i confini della sofferenza e della inadeguatezza che sono presenti in ogni depressione e che i modelli sociali dominanti rendono, appunto, ancora più dolorose e talora insanabili” (Ehrenberg 2010, p. XX). Purtroppo, oggi, nozioni come quelle di salute mentale e sofferenza psichica, che non avevano alcuna importanza prima della svolta degli anni Ottanta, occupano ormai una posizione di primo piano. E questo grazie anche al movimento di emancipazione dei costumi e alle trasformazioni dell’organizzazione dell’impresa e alla crisi del sistema di protezione sociale che ha avuto inizio nel corso degli ani Novanta. Da questo momento, di salute mentale e di disagio psichico si sono interessate diverse scienze, fra cui la biologia, la psicologia, la filosofia morale, la sociologia, fino alle scienze neurologiche, compresa la psichiatria. In tutto ciò si sono creati diversi settori che studiano l’uomo da un punto di vista biologico, psicologico e sociale. E tutto ciò non trascurando l’aspetto morale o etico, legato, per alcuni,  anche alla necessità di una nuova Metafisica e, come oggi si suole dire, ad un nuovo umanesimo o post-umanesimo. Al centro di tutto vi è la ricerca di affermare l’autonomia della persona, che consiste, da una parte nella libertà di scelta in nome della proprietà di sé e, dall’altra nella capacità di agire da sé nella maggior parte delle situazioni della vita.

In questi ultimi anni la psichiatria ha subìto un processo evolutivo tanto da passare dal considerare la follia da semplice malattia da condannare, a disagio mentale da guarire e da considerare il “folle” non più come un reietto della società, ma come una conseguenza del “disagio della civiltà”; disagio che nasce quando l’individuo è caricato troppo nelle sue responsabilità e nelle sue attese da parte della stessa società. Questo nuovo indirizzo verso la “socializzazione” del malato mentale si è avuto per primo negli Stati Uniti,  ad opera di  sociologi e psicologi, come Richardt Sennet con Il declino dell’uomo pubblico. La società intimista  del 1974 e Christopher Lasch con  La cultura del narcisismo, del 1979, per poi diventare campo di analisi  negli studi sociologici di Anthony Giddens e di Alain Touraine, in cui la sofferenza psichica e la salute mentale sono oggi il test sociologico che misura il grado del declino della società contemporanea. Una paura non solo dell’individuo, ma anche del sociale. E ciò non perché ci troviamo in presenza di un indebolimento del legame sociale o di declino della regola sociale, ma di trasformazioni nelle regole sociali e nello spirito delle istituzioni. Oggi il disagio mentale è diventato sinonimo di stato mentale, da rapportarsi al disagio della civiltà e, quindi, della cultura contemporanea. Per questo si parla di fine della cultura, di crisi d’identità, di crisi delle città, di crisi della politica come crisi della società in generale (vedi Habermas ).  E questa crisi, se un tempo si manifestava a livello individuale, oggi essa si manifesta a livello collettivo, così come ha affermato, all’inizio del secolo XX Marcel Mauss (1921). Questi, infatti, ha messo in rilievo in cosa consiste il carattere sociale della soggettività, dell’affetto, delle emozioni, dei sentimenti. In questo senso oggi, all’inizio del nuovo Millennio: “la salute mentale è diventata il linguaggio contemporaneo, la forma d’espressione obbligatoria non solo del malessere o del benessere, ma anche di conflitti, di tensioni o di dilemmi di una vita sociale organizzata in riferimento all’autonomia, che prescrive agli individui modi di dire e di fare” (Ehrenberg 2010, p. XV). “La salute mentale ha così, afferma Ehrenberg,  a che fare, a differenza della psicopatologia tradizionale o della psichiatria classica, con fenomeni generali della vita collettiva, quelli che dipendono al contempo dalla coesione sociale e dal significato di quanto accade, vale a dire dalla coerenza sociale” (Ehrenberg, 2010, p. XVI).   In tutto questo discorso sul disagio mentale e, quindi, sulla crisi d’identità entra il discorso su alcuni termini qualificativi come “modernità”, “postmodernità”, “società”, “individualismo”, “capitalismo”, “neoliberalismo”, “globalizzazione”,  “uguaglianza”, “libertà”, “democrazia”, “diritti”, ecc. Termini che oggi hanno assunto delle valenze sociologiche, oltre che culturali. Infatti, siamo passati dalla crisi della modernità al disagio della post-modernità, al fenomeno della globalizzazione, come causa ed effetto di disuguaglianza, temi descritti da diversi sociologi, economisti, psicologi come A. Tauraine, Z. Bauman, J. J. Stiglitz, U. Beck, D. Harvey, M. Castells,  D. Rodrik, ecc. Il punto adesso è come tutto ciò influisca sulla salute mentale e come questa possa essere curata e trattata in maniera scientifica. A tale proposito A. Ehrenberg, autore appunto del libro La società del disagio (2010), adottando i metodi di un’antropologia comparativa, esamina i due più importanti modelli di interpretazione della sofferenza mentale, quello americano e quello francese, focalizzandosi sugli usi della ricerca sociale e della psicoanalisi nei due paesi. Negli Stati Uniti si preferisce di più dedicarsi all’esperienza individuale del paziente, mentre in Francia  si preferisce rapportare la malattia mentale ad un disagio nella società. Questa ultima corrente psichiatrica viene catalogata come psichiatria sociale o comportamentale, la quale    “si occupa di studiare sia l'influenza dei fattori sociali sulla genesi e sul decorso spontaneo dei disturbi psichici (comprendendo in questo tipo di indagine l'epidemiologia psichiatrica) sia il rapporto fra i fattori socioculturali e il trattamento dei disturbi psichici stessi” (Ehrenberg, 2010). Da questo momento, inizia la crisi  del liberalismo e, quindi, l’entrata in un'epoca in cui non ci sono più certezze e, quindi, verità da difendere. Inizia così il percorso tormentato del disagio sociale e, quindi, mentale, in un contesto  in cui non solo è morto l’individuo, ma con lui la società. La stessa che sarà al centro dell’analisi psicologica da parte degli studiosi francesi, che porranno al centro di ogni dibattito non più l’individuo, ma la società nel suo complesso sociale, culturale e antropologico. In altri termini la psicoanalisi francese, rispetto a quella americana, privilegia più l’aspetto sociale che quello individuale. Di questa nuova impostazione psicoanalitica il capostipite è Jacques Lacan (1901-1981). Per Lacan il soggetto o Io non è il dato originario della vita psichica dell'individuo, ma il risultato di una costruzione. In lui ciò che hanno valore sono i legami sociali, da cui nascono le nevrosi. E ciò in conseguenza al declino della figura paterna. In altri termini, in Lacan c’è un contrasto fra l’ideale sociale e l’illusione  dell’Io. Con l’ingresso nella cultura di massa, la psicanalisi entra nella quotidianità della gente, grazie anche ai mezzi di comunicazione, come riviste e giornali. L’io individualistico diventa l’io collettivo. È l’epoca della soggettività liberata in cui il capitalismo e il neoliberalismo godono di ottima salute, tanto da creare le basi per una globalizzazione generalizzata sul piano sociale, culturale ed economica. È, in un certo qual modo, il distacco della società dalla politica e, quindi, dal potere decisionale. È l’epoca della nascita dei movimenti che si riconoscono più che nei partiti tradizionali, in alcune idee innovative e contestative dell’ordine pubblico, rappresentate da alcuni laeder. Per la prima volta viene a galla “il  disagio del lavoro”, la crisi delle identità territoriali,  che poi si riconnette, a livello generale, al “disagio della civiltà”. E questo in conseguenza anche del “trionfo del capitalismo liberale sul capitalismo di Stato”. La precarietà del lavoro, all’inizio del Duemila, diventa strutturale, tanto da costituire “il volto nascosto della modernizzazione”. E tutto questo porta direttamente verso “la società del disagio” e, quindi, la precarizzazione dell’esistenza, acuita oggi, in maniera esponenziale, dalla pandemia, che ha messo in evidenza la fragilità dell’uomo e il suo “disagio psichico” di fronte alla realtà della vita.

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