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Nei primi anni dell’800 un numeroso contingente di truppe francesi stazionò in Puglia in conseguenza di accordo tra il Regno di Napoli e la Francia finalizzato al controllo dei patti di pace tra queste due nazioni.

La Puglia non era predisposta ad accogliere i Francesi che ammontavano a circa 15.00 tra soldati semplici e ufficiali, anche italiani, ma arruolati fra le truppe della Repubblica Cisalpina aggregate all’armata francese.

I soldati semplici e i sottufficiali furono sistemati alla meglio presso conventi, stalle e locande, ma per gli ufficiali il governo ordinò che ogni famiglia benestante dovesse ospitarne qualcuno.

Questa disposizione, che si aggiungeva a quella del costoso mantenimento di questa armata straniera da parte delle comunità locali, provocò non poche proteste da parte dei capifamiglia, che vedevano, in tal disposizione, oltre al peso economico, una violazione della loro intimità.

Le preoccupazioni erano dettate dal fatto che i militari avevano una solida fama di seduttori e loro galanteria, spinta oltre le normali convenzioni, nei confronti delle fanciulle e delle donne sposate, aveva presto creato non pochi problemi di gelosie e tradimenti.

I rapporti tra le truppe e le popolazioni locali non erano molto buoni, anche per l’arroganza dei militari che si comportavano come vere e proprie truppe di occupazione., anche se così non doveva essere, perché la loro presenza della Puglia avrebbe dovuto essere solo quella di assicurare la pace.

Molte le testimonianze di questa situazione, specialmente nel Salento, ove il prezioso diario manoscritto del Buccarelli ci porta a conoscenza di diversi incresciosi episodi.

In particolare, in questo manoscritto, nella cronaca della primavera del 1804 sono riportati  gli episodi più significativi accaduti in quegli anni, come un uxoricidio e  l’omicidio di un ufficiale delle truppe Cisalpine aggregate all’armata francese, tale Gerolamo Tela.

L’11 maggio del 1804, come riporta il Buccarelli, alle tre di notte, il capitano Tela, che alloggiava a Lecce nel Portaggio di Rugge, isola del Carmine, presso l’abitazione di un commerciante ex militare della Repubblica Partenopea, Luigi Mellone, fu da questi ucciso perché sorpreso in intimità con la moglie del Melone, Anna Pacelli, che, anch’essa aggredita dal marito, perirà alcuni giorni dopo per le gravi ferite riportate.

Il duplice omicidio avvenne per gelosia e il Mellone, ricercato dal Tribunale criminale di Lecce e dai militari francesi, non fu mai ritrovato.

Evidentemente, prima del duplice omicidio, egli aveva già programmato la sua fuga.

La convivenza forzata, purtroppo, aveva fatto sbocciare i sentimenti e il Mellone, accortosi dell’adulterio, cieco di rabbia, aveva assassinato i due amanti.

Il destino del Mellone dopo questo duplice delitto, come si apprende da varia documentazione conservata presso gli Archivi di Stato di Lecce e Napoli, prenderà una piega molto avventurosa; egli diventerà un agente segreto di Sua Maestà la regina di Napoli Maria Carolina d’Asburgo Lorena, moglie di re Ferdinando.

Il Melloni, forte probabilmente delle sue esperienze di viaggio e dei precedenti contatti come commerciante, fuggirà dapprima nell’isola di Malta, poi in Grecia, a Corfù, quindi in Turchia e in Germania.

Sotto falso nome, nel 1807, è a Trieste allora sotto l’impero Austro-Ungarico; in questa città apre e dirige una manifattura, ma è costretto a fuggire con l’arrivo delle truppe francesi.

Da Trieste, con l’aiuto del duca di Sangro, s’imbarcò per Palermo, ora la corte borbonica era scappata a seguito dell’invasione del Regno da parte dei Francesi e l’insediamento di Giuseppe Bonaparte sul trono di Napoli.

In Sicilia il Mellone, grazie alla sua conoscenza di varie lingue straniere ed alla sua esperienza di viaggi, fu ingaggiato definitivamente come agente segreto direttamente dalla regina Maria Carolina, con l’incarico di organizzare un servizio di corrispondenza fra Palermo e l’Austria.

Il Mellone parte nuovamente e si ferma a Scutari, in Albania, ove con le credenziali fornitegli dalla regina istituisce un Consolato; sede diplomatica che sarà solo un ponte verso l’impero Austro-Ungarico.

Infatti, partito da Scutari per Vienna, in questa città incontrerà il ministro borbonico Ruffo, che lo incaricherò di recapitare un prezioso plico di documenti alla corte di Palermo.

L’agente segreto Mellone, dopo varie traversie, riuscì a portare a termine la sua missione.

Intanto, il suo anziano padre, ottenuto per lui il permesso di rimpatriare a Lecce, gli scriverà invitandolo a fare ritorno a casa per salvare l’azienda di famiglia, ormai in cattive condizioni economiche; ma l’agente segreto, ricevuti i ringraziamenti personali della regina, ripartirà per un’altra missione per l’Austria e la Germania, al fine di valutare e programmare in sicurezza, in caso dì invasione della Sicilia, una eventuale fuga della stessa regina.

Durante questo viaggio, però, il Mellone, dopo aver superato alcune difficoltà a Messina, nel marzo del 1813, imbarcatosi su un bastimento inglese, scambiato per un agente doppio, fu arrestato e condotto nell’isola greca di Zante, allora in mano inglese.

Dalla fortezza di Zante riuscirà a fuggire in maniera rocambolesca e raggiungere l’Albania; la sua conoscenza delle lingue dovette favorirlo non  poco.

Il suo avventuroso viaggio al sevizio di Sua Maestà la regina proseguirà poi via mare per Reggio Calabria, città da cui risalirà la penisola italiana fino a raggiungere finalmente via terra Vienna per portare al termine la sua missione esplorativa.

Intanto, però, nel 1815, reintegrata sul suo trono dal congresso di Vienna, la corte borbonica era tornata a Napoli e l’agente segreto Mellone potrà quindi finalmente ritornare nella sua Lecce!

In Puglia, ricongiuntosi col suo vecchio genitore ed i suoi figli, continuò il suo servizio come agente segreto agli ordini dell’intendente, ovvero del governatore della provincia di Lecce, tal Vincenzo Guarini, famigerato filo borbonico.

Dopo una vita molto avventurosa, il Mellone terminerà i suoi giorni presso un suo figlio giudice regio in Maglie.

fonte: FAI - Fondo Ambiente Italiano

Giuliano Volpe torna a Napoli per presentarci un museo davvero originale che coniuga medicina e arti, cultura umanistica e cultura scientifica: il Museo delle arti sanitarie dell’Ospedale borbonico degli Incurabili.

Il nostro viaggio nell’Italia virtuosa ci riporta nuovamente a Napoli, città che, pur tra mille contraddizioni, da anni vive un’effervescente vitalità culturale con numerose realtà attive nella gestione dal basso del patrimonio culturale. Una realtà assai poco nota e che invito tutti a scoprire è collocata all’interno di uno dei più straordinari ospedali storici, quello di Santa Maria del Popolo degli Incurabili, l’ospedale più importante del regno borbonico posto nel cuore più antico di Napoli.

A causa di cedimenti statici l’ospedale è stato liberato ed è in corso il restauro di una parte del grande complesso monumentale. Per queste ragioni non è visitabile al momento la Farmacia storica, un vero gioiello d’arte e di medicina, con gli arredi originari, oltre 400 vasi di maiolica e straordinari affreschi: un Luogo del Cuore - nella classifica dei luoghi storici della salute della X edizione - nel quale si incrociano arte barocca, scienza illuministica ed esoterismo massonico, con una enfatizzazione del ruolo femminile. C’è da sperare che possa essere presto riaperta al pubblico, perché da sola merita un viaggio a Napoli.

Il museo delle arti sanitarie

È però possibile visitare il Museo delle arti sanitarie, che occupa gli spazi che nel Cinquecento accoglievano le Pentite (cioè ex prostitute convertite, impiegate nell’Ospedale nell’assistenza dei malati di sifilide), allestito e gestito dall’Associazione “Il faro di Ippocrate”, composta da volontari di diversa formazione, interessati alla storia della medicina, in particolare quella napoletana, campana e meridionale. Fondatore e anima del museo è Gennaro Rispoli, chirurgo e vero mecenate con la passione irrefrenabile per l’acquisizione di oggetti e documenti (molta parte dei materiali esposti sono stati da lui acquistati e donati al museo) e per lo studio storico dei grandi maestri del passato. La Scuola medica napoletana ha occupato, infatti, un ruolo di primo piano nel contesto italiano ed europeo, con personalità del calibro di Domenico Cotugno, Domenico Cirillo, Ferdinando Palasciano, Giovanni Ninni, Giuseppe Moscati.

Attraverso una miriade di oggetti, strumenti, quadri, sculture (tra cui anche uno splendido “presepe” popolato di statuine di cartapesta della migliore tradizione napoletana, raffiguranti malati di vario tipo) si ripercorre la storia della farmacologia, dall’alchimia alla moderna chimica farmaceutica, e dei tortuosi percorsi seguiti nella cura delle varie malattie, dalla teoria umorale alla clinica moderna e dal barbiere-cerusico alla figura del chirurgo, non senza attenzione alle epidemie e alle prime vaccinazioni.

Notevole è la ricostruzione dello studio di Giuseppe Moscati, il beato “medico dei poveri”, con i suoi strumenti, gli arredi, il tavolo anatomico, le ricette, i libri, gli appunti. Grande interesse hanno anche la ricostruzione di una farmacia tradizionale e l’ampia sezione dedicata alla cura dei denti.

Lo studio di Giuseppe Moscati   medico dei poveri   ph FAI

[Lo studio di Giuseppe Moscati  detto "il medico dei poveri" - foto: Fondo Ambiente Italiano]

Questo interessantissimo museo, che coniuga medicina e arti, cultura umanistica e cultura scientifica, rappresenta una tappa fondamentale di quello che potrebbe essere uno straordinario itinerario, un vero e proprio "cammino" tra gli ospedali storici e i musei di storia della medicina italiani. Un tema al quale sta riservando attenzione il Ministero della Cultura in collaborazione con il Ministero dell’Università e Novartis Italia, con l’avvio di Mudimed (il primo museo digitale) e un progetto di diffusione della cultura medica proprio a Napoli, con il Museo delle arti sanitarie, il MANN e Capodimonte.

Un effetto “positivo” della pandemia è il nuovo interesse per il metodo scientifico e per la medicina: quale metodo migliore allora per contrastare l’ignoranza e la diffusione di fake news se non un tuffo nell’avvincente, interessante e anche emozionante storia della medicina e delle persone che si sono dedicate allo studio e alla sperimentazione, con abnegazione e coraggio, non senza anche inevitabili fallimenti e insuccessi?

È possibile farlo al “Museo delle arti sanitarie” di Napoli, sostenendo anche l’impegno dei volontari che lo fanno vivere con amore e competenza.

Fra le carte riservate datate ai primi anni dell’ottocento dell’archivio diocesano di Conversano relative al Real Monastero di San Benedetto in Massafra, si conserva una sentenza del tribunale che annulla la professione di suor Petronilla Tauro di Castellana, fuggita dal convento con il capitano francese Stefano Douget, o, secondo altre fonti, Doceth.

Dietro questo provvedimento sulla monaca perfetta, ovvero una suora cui non era consentito di violare il giuramento fatto all’atto dell’entrata nel suo ordine monastico, si nasconde, come per tante altre adolescenti dell’epoca, la forzata professione monacale per mantenere intatto il patrimonio di famiglia.

Le conseguenze di tali costrizioni non mancano nelle cronache antiche e la vicenda di suor Petronilla è una di queste testimonianze.

Nei primissimi dell’Ottocento, la Francia, al fine di far rispettare gli accordi di pace appena stipulati con il re di Napoli Fedinando IV, inviò nella Puglia un grosso contingente di truppe, circa 10.000 soldati, al comando dell’allora generale Nicolas Jean-de Dieu Soult, che sarà poi nominato da Napoleone Maresciallo di Francia.

I soldati dell’armata francese, a partire dal 1801, stazionario per alcuni anni nei maggiori comuni della Puglia e molti di essi fraternizzarono presto con la popolazione locale.

Un capitano francese, tal Stefano Douget, originario della Normandia, in cerca di alloggi per acquartierare le truppe, che per mancanza di locali idonei spesso vennero sistemate anche nei locali conventi, oppure alla ricerca di pozioni medicamentose che le suore preparavano per i malati, entrò in contatto con le suore del monastero benedettino di Massafra.

Fu in queste occasioni, probabilmente, che conobbe una giovane e bella suorina, tale Petronilla Tauro, rampolla di una famiglia gentilizia originaria della vicina cittadina di Castellaneta, costretta alla professione dai genitori e dallo zio arciprete Vito Maria Magli.

L’ottima presenta fisica, il fascino della divisa, la gioventù, la voglia di lasciare la clausura del convento, furono tutte favorevoli circostanze che contribuirono a far nascere un amore improvviso e travolgente tra i due giovani.

Il capitano Stefano Douget tornò spesso a far visita alla bella Petronilla e il suo cuore innamorato e cieco di ogni prudenza mise preso in difficoltà la povera suorina.

Infatti, la madre superiora del monastero di San Benedetto, avvertita di queste troppo frequenti visite del capitano presso il suo convento, dispose il trasferimento di suor Petronilla presso altro convento più lontano.

La povera suora venne a conoscenza di questa decisione della badessa e, disperata, alla prima occasione, fuggì dal convento, tradendo il suo giuramento di fede e clausura.

Col probabile aiuto di qualche complice prezzolato dal capitano Douget e qualche monaca amica, dispiaciuta dallo stato di disperazione della Petronilla, la suorina, un giorno di settembre del 1801, giunto presso il monastero un carro che trasportava le provviste alimentati per la cucina del convento, non vista, prima che questi andasse via, si nascose sul fondo del carretto.

Appena fuori dal convento ecco il capitano Douget che la fece salire in groppa al suo cavallo per correr via verso un segreto rifugio, che si scoprì poi essere una Incontratasi col suo innamorato, questi , fatta salire sul suo cavallo l’amata Petronilla, con una veloce galoppata la portò subito al sicuro in una cascina nelle campagne alla periferia della non lontana Taranto.

Come previsto, la fuga di Petronilla dal convento e la seguente convivenza di fatto col capitano francese, provocarono un enorme scandalo!

La madre superiora del convento di San Benedetto e la famiglia di suor Petronilla, preso atto dell’avventurosa fuga dal convento della loro pupilla, si rivolsero immediatamente all’arciprete Vito Maria Magli, zio di Petronilla, personaggio molto conosciuto nelle gerarchie ecclesiastiche.

L’arciprete interessò subito l’arcivescovo di Taranto, affinché intervenisse presso gli alti comandi militari francesi per porre fine allo scandalo in atto con l’arresto del capitano Douget, imputandolo per rapimento e il ritorno di suor Petronilla nella clausura del suo convento di Massafra.

Il generale Soult, comandante dei contingenti francesi, però, non ritenne opportuno di emettere provvedimenti restrittivi nei confronti del capitano Douget e passò un rapporto sul comportamento dell’ufficiale ai suoi ordini direttamente all’ambasciatore francese a Napoli e per conoscenza anche al duca di Ascoli, allora commissario del re per la Puglia.

Quest’ultimo, per ordine del re, unitamente ad un rappresentante della Santa Sede nominato dal pontefice ed all’ambasciatore francese, realizzò un incontro per decidere il da farsi.

Era ormai troppo tardi, perché la bella Petronilla e il suo capitano francese comunicarono ai comandi militari ed allo zio arciprete che erano in attesa di un bambino e quindi, per far cessare al più presto lo scandalo, ogni indugio andava superato con la regolarizzazione del matrimonio fra i due amanti!

Cosa che avvenne poco prima della partenza dei due novelli sposi per la Francia, ove il capitano Douget era stato richiamato come tutta l’armata francese già di stanza in Puglia.

Suor Petronilla, non fu l’unica ad innamorarsi e lasciare la Puglia con un militare francese, come appurò il Lucarelli fra le vecchie carte del Ministero degli Esteri del Regno di Napoli e presso quelle di polizia conservate rispettivamente presso gli Archivi di Stato di Napoli e Bari, diverse donne pugliesi sposarono dei militari francesi, seppur contro la volontà dei loro familiari e molto spesso per sfuggire all’imposta vocazione conventuale, come a Trani la baronessa Bianchi, suora presso il monastero di Santa Chiara, che fuggi con il capitano Chibler; oppure a Monopoli, la giovane Lucrezia de Bellis scappata col capitano Tournier, o nel Salento la figlia di don Pasquale Perrone di S. Cesario e la figlia dell’avvocato Francesco Petrachi e tante altre donzelle!

Tutto il programma su Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico (www.borsaturismoarcheologico.it).

La città di Bovino è uno dei borghi più belli d’Italia, situato nel comparto sudoccidentale dei Monti Dauni in provincia di Foggia. Ha rappresentato, nel tempo, importante via di collegamento tra la Campania e la Puglia e ha goduto dei vantaggi derivanti dalla sua posizione di cerniera tra il cuore dell’Appennino e la grande pianura del Tavoliere, aperta sul mare Adriatico. Intensamente abitata già dal Neolitico, divenne nell’Eneolitico luogo, unico nella Puglia e nel Meridione d’Italia, della manifestazione dello speciale fenomeno delle stele antropomorfe, affascinanti testimonianze del mondo spirituale e dell’assetto sociale delle comunità che le produssero. Per le età successive non mancano evidenze archeologiche risalenti all’Età del Bronzo come pure quelle di una frequentazione daunia aperta agli influssi della civiltà sannitica. Ma è con l’età romana che avviene il più significativo riconoscimento dell’importanza strategica del luogo con la fondazione di un vero e proprio centro urbano, Vibinum, i cui resti si rivelano oggi inglobati negli edifici del borgo medievale. Nonostante le informazioni sulla sua fondazione siano ancora lacunose, proprio le fonti, i materiali archeologici e le epigrafi, conservati nel Museo Civico Nicastro offrono indizi utili sulla ricostruzione della sua storia”. Lo ha affermato Nunzia Roccottelli dell’Archeoclub D’Italia sede di Bovino, in Puglia.

Sabato 27 Novembre alle ore 13 e 30, Archeoclub D’Italia si è svolto un incontro in cui son stati illustrati gli Acquedotti storici. Alle 14 Massimo Santaniello, Presidente Archeoclub d’Italia sede di Castellammare di Stabia, Catello Lamberti, Vice Presidente di Archeoclub D’Italia sede di Castellammare di Stabia, Rachele Esposito, archeologa, hanno illustrerato le ricerche condotte sugli acquedotti dell’Ager Stanianus. Alle ore 14 e 30, l’architetto Roberto Tedesco, ha presentato l’Acquedotto Cornelio di Termini Imerese. Alle ore 13 e 30, si sono svolti studi e ricerche nella relazione “Il percorso dell’acqua a Vibinum” dell’archeologo Romano Valentino.

Domani, mentre, domenica 28 Novembre, alle ore 10 studi e ricerche su “l’Olivo della Madonna, rarità botanica tra archeologia, tradizioni e fede popolare”, con la relazione dell’archeologa Anna Rotella.

Dunque uno spazio particolare è stato riservato quest’anno all’Archeoclub d’Italia presso la BMTA, per parlare del 50ennale associativo – 1971/2021 – celebrato a Roma lo scorso 22 ottobre. Lo farà il Presidente Nazionale dell’Archeoclub d’Italia, dott. Rosario Santanastasio, nella mattinata di domenica 28 novembre, presso la Sala “Cerere” nel complesso immobiliare dell’ex Tabacchificio Cafasso”.

Valentino Romano (archeologo Università di Foggia ) : “Indagini di ricognizione sistematica nel territorio di Bovino su una superfice di 20 km quadrati. Individuati siti inediti, tra la preistoria  e l’età tardo antica, una serie di insediamenti del neolitico e dell’età del bronzo e sono novità rilevanti. Individuati nuovi insediamenti rurali di età romana e ville molto importanti e tra questi un insediamento in zona pianeggiante un pretorium che per un certo periodo sarebbe stato di proprietà di un console romano e che con ogni probabilità costituiva il centro amministrativo di una grande proprietà imperiale che si estendeva nella zona pianeggiante del Tavoliere”.    

“In particolare, nel I secolo a. C., si costruiscono, nella cittadina, la cinta muraria e l’acquedotto. In molti punti della città moderna si possono ancora scorgere tratti delle mura come anche in alcuni cortili di case private. Dell’acquedotto resta uno splendido arco in località, dal toponimo indicativo, Mura d’Acque o Mura d’Archi a Sud-Ovest di Bovino, mentre i condotti e le cisterne sotterranee sono ancora utilizzati come cantine degli edifici all’interno del centro storico. Proprio questo complesso sistema di cisterne - ha concluso Roccottelli - e canali ipogei per l’adduzione e lo stoccaggio dell’acqua è stato oggetto di studio nel corso delle recenti ricerche del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università di Foggia e grazie, anche, alle competenze e alle strumentazioni dell’associazione A.S.S.O. (Archeologia Subacquea Speleologia Organizzazione) di Roma, si è avviato il censimento, l’esplorazione e il rilevamento delle strutture ipogeiche. I depositi per l’acqua furono in parte scavati nella roccia viva, in parte costruiti: nello specifico, le c.d. cantine Cerrato, già identificate da Joseph Mertense come castellum aque rappresentano un imponente monumento sotterraneo della Bovino romana”.

E il modello Archeoclub D’Italia sarà protagonista della prossima edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico in programma a Paestum, in Campania, dal 25 al 28 Novembre.

a cura del prof. Giuseppe Piemontese - Società di Storia Patria per la Puglia.

La civiltà occidentale, con riferimento specifico a quella europea, è sorta dall’identità dell’uomo con la propria città, che ha creato le basi per lo sviluppo sociale ed economico delle popolazioni. Ciò ha determinato da una parte la nascita delle città come spazio vitale di sviluppo della comunitas, ma soprattutto ha creato le basi per la costruzione di una propria identità culturale, che si è formata, non solo attraverso lo spazio, ma soprattutto attraverso la temporalità degli avvenimenti e dei fatti storici, riguardanti  soprattutto la città o il luogo di appartenenza. In questo senso spazio e tempo hanno dato origine, in Europa, alla civiltà occidentale e, quindi, alla civiltà urbana, che è l’espressione del rapporto fra l’uomo e il suo territorio. Territorio che poi diventa paesaggio e, quindi, spazio aperto per la comunità.

A qualificare e a contraddistinguere l’identità della propria città, in questo caso Monte Sant’Angelo e, quindi, della comunità, specie nel passato, sono stati alcuni temi collettivi, che hanno dato un volto e un’anima alla città, quel daimon che i Greci chiamavano lo spirito di una città, la sua anima, la sua identità storica e culturale. Fra questi temi collettivi, a cui la civitas europea ha fatto sempre riferimento, specie nei momenti più difficili e nei momenti di crisi, dobbiamo annoverare i santuari, le cattedrali, le chiese, i palazzi, le piazze, il centro storico, le mura cittadine, i monumenti in generale, il teatro comunale, i giardini pubblici.

Nel nostro caso il Santuario micaelico, con le sue peculiari identità legate principalmente al culto e al pellegrinaggio cristiano, quali elementi essenziali della cultura religiosa occidentale, rappresenta l’essenza stessa della città di Monte Sant’Angelo. Così come, nel nostro caso, il Castello, rappresenta l’elemento essenziale del potere temporale, ma soprattutto del potere feudale, che ha condizionato la vita dell’Europa per quasi mille anni, dal IX secolo fino al XVIII secolo. E poi ancora i palazzi storici, le chiese, l’architettura, l’urbanistica, che si configurano principalmente nel cuore stesso della città, che è il Centro storico. Tutto questo, il suo patrimonio materiale, unito al patrimonio immateriale, fra cui le sue tradizioni popolari, forma la città, la sua identità storica, la sua anima, il suo daimon. In questo senso, ogni città è un’opera d’arte, in quanto la sua storia e la sua cultura si riflettono principalmente nel suo patrimonio storico-artistico oltre che monumentale. Temi collettivi che caratterizzano quasi tutte le città italiane, di cui la popolazione  non può fare a meno, se non vuole cancellare la sua memoria storica. Un patrimonio da preservare ad ogni costo. Infatti, se una città ha un’anima la si deve proprio al suo patrimonio culturale, ai suoi monumenti, ai suoi temi o simboli collettivi, che si sono formati nell’arco dei secoli, tanto da sedimentare civiltà e culture dei vari popoli che hanno lasciato le loro testimonianze. Civiltà e culture che sono state costruite nell’arco dei secoli e che hanno avuto come loro spinta propulsiva la creatività dell’uomo, la sua ricerca della bellezza. In questo senso, quando viene a scomparire un monumento, un palazzo storico, una chiesa, un quartiere, viene ad essere deturpato il volto e l’integrità della città intesa come arte e bellezza, e questo è ancora più grave se lo si rapporta alla perdita e alla morte del suo Centro storico, con la sua architettura e la sua anima popolare, della sua gente che è costretta ad allontanarsi, per motivi familiari, ma soprattutto per motivi di lavoro, tanto da perdere così l’anima dei luoghi, la loro bellezza, e quindi l’identità stessa della città.  Purtroppo viviamo in un mondo in cui lo spirito della bellezza ha lasciato il posto all’economia, allo sfruttamento selvaggio e incondizionato della Natura,  tanto da uccidere la nostra sensibilità e la nostra storia millenaria legata alla città come opera d’arte.

Per questo si parla di città senza cultura, di città in abbandono, di crisi dell’identità e della ragion d’essere, là dove predominano solo distruzioni e superficialità, senza che si costruisca in maniera decente il futuro e, quindi, lo sviluppo delle potenzialità di un territorio. Una città priva della sua capacità di rinnovarsi e di rigenerarsi, attraverso una politica che abbia a cuore il destino della propria città. Purtroppo, quanto più andiamo avanti, ci accorgiamo che predominano, in noi,  i segni del progressivo disintegrarsi del sociale, del simbolico e soprattutto della funzionalità e della competenza, senza che si riesca a far emergere nuovi orizzonti, dove la gente possa ritrovare la sua direzione e, nello stesso tempo, la sua felicità. In questi senso, ci permettiamo di affermare che ogni città, per essere tale, deve avere in sè la ricerca della propria identità e considerare essa stessa come opera d’arte. E per fare questo c’è bisogno di creare le condizioni per un connubio fra cultura e politica, altrimenti, la sola politica, senza la cultura,  è destinata a fallire. In altri termini bisogna riacquistare il senso della comunità e, quindi, della partecipazione attiva verso la propria città e il proprio territorio, come per esempio nella scelta del futuro destino della Piana di Macchia, non delegando il tutto alla sola politica.

Non si direbbe, ma il più famoso Grigorij Efimovič Rasputin, mistico russo che spadroneggiò alla corte degli zar di Russia nei primi anni del secolo scorso, ebbe in un’altra corte europea, quella dei Borbone di Napoli, un antesignano nel frate alcantarino pugliese Serafino da Soleto.

In questa cittadina del Salento, Francesco Antonio Cristoforo era nato nel 1704 in una famiglia benestante, da Nicolò Antonio e Teresa Manni.

Giovanissimo, nel 1725, indossò come frate laico l’abito dell’ordine dei Frati Minori Alcantarini, prendendo il nome di Serafino della Concezione.

Trascorse i suoi primi anni di religioso presso il convento di quest’ordine in Lecce; dal padre provinciale, dopo alcuni fu destinato a Napoli, allora capitale dell’antico Regno delle Due Sicilie.

Durante il soggiorno in questa città, fra Serafino della Concezione, molto presto, ebbe modo di farsi conoscere per la sua innata modestia e per le cose veramente meravigliose di sua vita, com’è riportato in vecchi manoscritti e biografie che lo riguardano conservati presso l’Archivio Provinciale dei Frati Minori di Lecce.

Richiamato in seguito a Lecce, dopo poco tempo, su pressione di vari esponenti dei casati nobiliari napoletani più in vista, fra Serafino fu nuovamente trasferito nella capitale partenopea e questa volta con l’incarico ufficiale di curare a Napoli gli interessi dei frati della provincia minorita di Lecce.

La cronaca della sua biografia ci informa che frate Serafino nelle infermità era il primo medico: tutti i disturbi che nelle case de Magnati sogliono accadere, a lui solo si palesavano, ed egli n’era il compositore; ed in somma di tutte le afflizioni, e travagli domestici, era il consuolo e il sollievo di tutti.

Un intuitivo, un guaritore, oppure solo un grande consolatore, un guaritore solo di menti afflitte, la cui arma erano solo delle belle parole?

La sua fama si sparse ben presto fra i casati più altolocati della Napoli del Settecento e non sfuggì neppure a due note dame di corte, la principessa di Palo e la duchessa di Castropignano, la nobildonna Zenobia Revertera.

Quest’ultima era l’autorevole ed influente favorita di Maria Amalia di Sassonia, regina di Napoli e poi di Spagna, consorte di re Carlo di Borbone, poi re Carlo III di Spagna.

La fama di fra Serafino della Concezione non tardò ad arrivare alle orecchie dei reali e l’umile frate di Soleto fu quindi invitato a corte per una udienza con la stessa regina, che sperava in cuor suo, dopo aver avuto due figlie femmine, nella nascita di un erede maschio.

In occasione dell’incontro, caldamente le Loro Maestà si raccomandarono alle di lui orazioni affinché il Signore Dio per l’intercessione del glorioso S. Pasquale, si fosse compiaciuto di far nascere un maschio.

Fra Serafino quindi, dopo aver esposto alla venerazione dei sovrani una reliquia di S. Pasquale, invitò la regina a recitare una Novena dedicandola a San Pasquale, di cui mostrò ai reali una reliquia.

Le preghiere ebbero il loro effetto e la regina Maria Amalia il 13 giugno del 1747 partorì finalmente un figlio maschio, cui fu dato il nome di Filippo Pasquale.

Questo principino non fu l’unico maschio, subito dopo la regina partorì Carlo Pasquale e poi ancora Ferdinando, destinato a diventare il futuro re di Napoli.

Questo fortunato epilogo spalancò le porte della reggia a padre Serafino che, chiesta l’autorizzazione al pontefice, battezzò personalmente i principi di casa reale, acquisendo in tal modo il titolo di compare della coppia reale, ovvero di padrino dei principini.

Il frate, inseguito dalla sua fama, battezzò anche molti rampolli della nobiltà, quali i figli dei principi Doria, Bisignano, Riario, dei duca di Monteleone, di Castropignano, di Laurino, del marchese del Vasto e di moltissimi altri nobili dell’antico Regno di Napoli.

La fama dell’umile padre di Soleto, che ormai non disdegnava di recarsi anche per lunghi periodi a corte, si diffuse in tutto il regno ed arrivò anche a Lecce.

L’umile frate era diventato ormai uno dei padri spirituali e consiglieri della regina e del re e grazie a questa sua posizione di potere riusciva anche a dispensare anche molti favori al suo ordine.

Nello stesso ambiente della corte a qualcuno l’influenza che padre Serafino aveva sui sovrani e sulle politiche ecclesiastiche del governo, dava parecchio fastidio.

Preoccupato di veder sminuito il suo potere, il confessore dello stesso re, monsignor Giuseppe de Bolanos, sentiva ormai svalutata la sua influenza sugli stessi e vedeva di cattivo occhio l’ascesa di fra Serafino nel cuore dei due sovrani.

Le gelosie, si sa, fanno presto a sorgere e il povero fra Serafino da Soleto non ne fu esente.

E’ vero, qualche piccola concessione alle regole del suo ordine monastico dei Frati Minori Alcantarini egli l’aveva pur fatta, ma era nulla in confronto a quanto era riuscito ad ottenere in favore dei suoi confratelli.

Infine, egli fu accusato di spostarsi in carrozza, di aver accorpato sulla sua persona troppi incarichi, di essersi fatto costruire un piccolo coro personale per meditare in solitudine, di aver sperperato il denaro delle elemosine in viaggi a Roma, Assisi, Loreto e Venezia e di non chiedere mai il permesso ai suoi superiori per i lunghi periodi passati a corte, anche se erano pur sempre il re o la regina a invitarlo.

Del resto, fra Serafino, proprio grazie a questa sua assidua vicinanza ai coniugi reali riuscì ad ottenere dal re cospicui fondi e le rendite per realizzare e mantenere nuovi conventi del suo ordine, sia a Napoli che nella sua regione di origine, la Puglia, in particolare nella città di Taranto.

Ma le azioni buone si dimenticano presto e il povero frate di Soleto, fu infine travolto dal suo stesso mito e costretto a ritornare all’umile esistenza di frate minore, condizione in cui morì nel 1767.

Approvato all’unanimità il disegno di legge che contiene le modifiche alla norma di recente approvazione in materia di promozione delle attività storiche e di tradizione della Puglia.
Le modifiche sono state necessarie a seguito delle osservazioni del Ministero, in quanto nel prevedere il riconoscimento regionale delle attività storiche e di tradizione con la conseguente iscrizione in un apposito elenco, non è stato fatto espresso riferimento alla autorizzazione ai sensi del Codice del beni culturali, laddove si fanno interventi di restauro e ristrutturazione. 
La legge, che come è noto punta a sostenere interventi di restauro e conservazione di beni immobiliari, insegne, attrezzature, macchinari, arredi, finiture e decori originali legati all’attività storica, nella nuova formulazione prevede che i proprietari e i gestori delle attività storiche e di tradizione presentino al Comune proposte di intervento per il restauro e la valorizzazione della struttura edilizia o degli arredi, della conformazione degli spazi interni, delle vetrine e di ogni altro elemento di decoro. L’amministrazione Comunale, sentita la competente sovrintendenza e fatti comunque salvi i casi di interventi soggetti ad autorizzazione ai sensi del Codice dei beni culturali del paesaggio, valuta se gli interventi proposti possano alterare l’immagine storca tradizionale dell’esercizio. 
Ancora, la Regione dovrà farsi promotrice di accordi con i Comuni per la definizione di forme di premialità o di riduzione di imposte, tribute e tariffe comunali sgravati sulle attività storiche e di tradizione, l’attuale formulazione, invece, non assicura che l’erogazione dei contributi previsti avvenga nel rispetto della normativa europea in materia di aiuti di Stato.

Lo ha fatto con un intervento scritto sul sito del Fondo Ambiente Italiano (FAI), illustrando la gestione della Piscina Mirabilis a Bacoli, in provincia di Napoli,  come il primo esperimento di partenariato pubblico/privato avviato da un istituto del Ministero della Cultura, dal Parco Archeologico dei Campi Flegrei.

Volpe come scrive sul FAI: «È una norma di grande interesse, che potrebbe aprire straordinarie opportunità non solo di recupero e di restituzione alla collettività di pezzi di patrimonio culturale spesso in abbandono e in stato di degrado ma anche di lavoro, di occupazione, di sviluppo fondato sulla cultura».

Su questa tesi di virtuosismo, per la ricerca scientifica, applicata alla tutela, alla pubblica fruizione e la valorizzazione di beni culturali immobili e tutti i benefici che ne derivano dal mantenimento, che potrebbe essere applicata anche ai nostri beni culturali - si veda il Parco Archeologico di Siponto-, Giuliano Volpe traccia delle linee guida, affermando: «Se in Italia si adottasse in tanti altri siti e monumenti il modello di partenariato pubblico privato già utilizzato felicemente dal Parco archeologico dei Campi Flegrei si creerebbero condizioni favorevoli per:

a) il lavoro di archeologi e altri professionisti dei beni culturali nel campo della gestione;

b) l'accessibilità di siti, monumenti, musei ancora oggi condannati a una condizione a dir poco insoddisfacente;

c) il recupero e la rinascita di siti, monumenti e musei in stato di abbandono e degrado.

Se non ora quando?

Che altro si aspetta, visto che si parla  tanto (a volte solo retoricamente) di "turismo di prossimità", di "sviluppo delle aree interne e meno favorite dal turismo", di "patrimonio diffuso", di "imprenditoria culturale"?».

I Sammecalère

a cura del prof. Giuseppe Piemontese - Società di Storia Patria per la Puglia.

La storia della statuaria garganica è un altro dei capitoli importanti della religiosità popolare meridionale. Essa affonda le proprie radici nel culto delle “pietre”, antico quanto l’uomo, ma sempre vitale per il suo significato semantico e simbolico. La pietra è il simbolo della Madre-Terra e, quindi, della stessa vita. Inoltre, la pietra è anche il simbolo della saggezza e della “costruzione” e come tale venne utilizzata nel Medioevo come elemento su cui costruire chiese, cattedrali e santuari. Conosciutissima è la vicenda della fondazione del Santuario di Mont Saint-Michel in Normandia, avvenuta nell’VIII secolo ad opera del vescovo Oberto di Avranches, il quale si recò sul Monte Gargano per prelevare frammenti di roccia del Santuario di S. Michele e fondarvi il nuovo santuario dedicato a S. Michel au péril de la mer. Nella stessa simbologia si inserisce il culto delle “pietre” della “Cava” di S. Michele garganico, in seguito alla quarta Apparizione dell’Arcangelo Michele    all’Arcivescovo Puccinelli, in riferimento alla diffusione della peste del 1656. Da allora,  infatti, nacque il motto: UBI SAXA DEVOTE REPONENTUR IBI PESTE DE HOMINIBUS IN SPELLENTUR (Dove con devozione si porranno le pietre, di lì si allontanerà la peste dagli uomini), frase che deve essere messa in collegamento con quella più antica: UBI SAXA PANDUNTUR IBI PECCATA HOMINUM DIMITTUNTUR (Dove si allarga la roccia, là i peccati potranno essere rimessi).

       Le pietre di S. Michele, oltre ad essere utilizzate per la costruzione di chiese e santuari e per preservare gli  uomini da malattie, le troviamo anche in funzione di protezione e salvaguardia delle case e contro il malocchio. Infatti, fino a non molto tempo fa, era ancora viva l’usanza di seppellire nelle fondamenta delle case pietre di S. Michele. A ciò bisogna aggiungere l’usanza di decorare le facciate delle case di piccole edicole con l’immagine di S. Michele Arcangelo: un carattere distintivo di devozione e di fede nell’Arcangelo Michele, quale segno di protezione e di salvaguardia da ogni male, compresi i terremoti così frequenti sul Gargano.

Il culto delle pietre si manifesta, tuttavia, in tutta la sua devozione, nella statuaria locale raffigurante l’immagine di San Michele e nella sua diffusione in tutto il mondo. Essa ha una tradizione molto antica, risalente al XV secolo, allorquando il re Ferrante emanò, nel 1475, un Real Privilegio col quale si dava facoltà ai soli scultori di Monte Sant’Angelo (i Sammecalère) di scolpire l’immagine di S. Michele in tutto il Reame. Questa prerogativa, che è anche perizia tecnica ed artistica, è stata tramandata da padre in figlio attraverso vere e proprie botteghe artigianali, risalenti a famiglie ben note di Sammecalère, fra cui citiamo i Di Iasio, i Perla, i Bisceglia. Purtroppo la plurisecolare tradizione dei Sammecalére di Monte Sant’Angelo si è interrotta con la morte dell’ultimo di essi, Michele Perla, avvenuta negli anni Ottanta dello scorso secolo. A tale proposito sia il Museo devozionale che il Museo delle Arti e Tradizioni popolari del Gargano, conservano diversi esemplari risalente ai Sammecalère locali. Opere molto belle, non solo per la raffinata arte scultorea, quanto per la varietà iconografica delle immagini di San Michele, che ci riporta verso il modello classico della statuaria locale che era quello sansoviniano.  Il Tancredi ricorda che le statue di S. Michele si vendevano a migliaia, specie nel mese di maggio, durante il  pellegrinaggio e che gli oggetti erano lavorati dagli statuari detti Sammecalère, nell’atrio stesso della Reale Basilica. Afferma M. Sansone: “ Gli  statuari di Monte erano chiamati nelle varie province del Regno per eseguire le immagini di San Michele e le altre opere di scultura. Uno della famiglia Perla, e propriamente Giovanni, nella metà del 1900 recatosi in Sicilia per lavoro vi rimase continuando l’opera atavica…Le opere di questi statuari erano richieste sia in Italia che all’estero e, penso, non tanto per le qualità artistiche, ma per il motivo che erano eseguite in pietra della Sacra Montagna e da artefici che lavoravano nell’ambito del Santuario”.  Le statue erano generalmente di pietra locale  o di alabastro di Carrara, come si legge in De Filippo: “Gli statuari estraevano “la pietra gentile” da due cave situate l’una, la Tufèra Ròsse, completamente distrutta dalle nuove palazzine in costruzione, a pochi passi dall’abitato, sulla strada Monte Sant'Angelo-Manfredonia; l’altra su quella per Mattinata, nei pressi di Sellino Cavola. Tra i due tipi di pietra i Sammecalère preferivano lavorare il massello della Tufèra Ròsse perché aveva “una fibra ed una compattezza maggiore” ed era più resistente alle intemperie. Una pietra pregiata, molto ricercata e difficile da trovare in blocchi consistenti, era inoltre la prèta turchenédde che si trovava solo a  Narciso, una località impervia e di difficile accesso, situata lungo la valle Carbonara. Essa aveva una colorazione che virava al turchese col passar del tempo e che dava al S. Michele un fascino, una bellezza particolare ed un valore inestimabile” (De Filippo, 1989, p. 98).

Le statue che si scolpivano a Monte Sant’Angelo erano oggetto di esportazione in tutto il mondo cristiano, tanto che era un privilegio possedere una statua di S. Michele di Monte. Al tempo dell’Arcivescovo Puccinelli (1656),  numerose statue dell’Arcangelo Michele furono inviate in diverse chiese d’Italia ed esposte al pubblico in segno di devozione e di protezione contro la peste. Una di queste è la statua di S. Michele spedita, nel 1658, da Monte Sant’Angelo a Lucca ed esposta sulla facciata esterna della basilica di S. Michele in Foro. Così pure la statua spedita dallo stesso Arc. Puccinelli nella città di Lucerna, in Svizzera, rattristata anche essa, nel 1659, dalla peste. Numerose altre statue di San Michele  raggiunsero le città di San Severo, Lucera, Napoli, Messina.

Il modello classico della statuaria locale era quello sansoviniano: un San Michele in atteggiamento guerriero, con spada e scudo fiammeggianti, con l’immagine del diavolo sotto i piedi. Generalmente il viso era scolpito con tratti ieratici ed esprimeva fiducia e protezione. Mai vi si scorgevano vendetta o violenza gestuale. “L’arte della statuaria micaelica, afferma il Sansone, si è continuata fino ad oggi, con una parabola discendente proporzionata alle richieste pubbliche e private e all’affievolirsi di un uso locale che un tempo (sino alla fine del secolo scorso e all’inizio del nostro) doveva essere diffusissimo e quasi imprescindibile, allorché la figura scolpita e/o dipinta di San Michele era presente in tutta la vita domestica e cittadina” (Sansone 1991, pp. 152-154). Purtroppo, oggi, veri e propri Sammecalère non esistono più, anche se qualcuno cerca di imitare l’arte dei nostri antichi progenitori. Pertanto, dobbiamo concludere, che l’arte dei Sammecalère, quelli vera e autentica, è un altro grande capitolo della religiosità popolare garganica, testimonianza di un’antica tradizione d’arte e di perizia tecnica, che merita di essere studiata nella sua originalità ed approfondita nei suoi giusti significati iconologici ed iconografici.

Nel sud d’Italia, in provincia di Foggia, a Troia, nel subappennino dauno, la città della cattedrale romanica e del magnifico rosone, è presente un’opera d’arte di grande rilievo: “Il Mosaichaos delle meraviglie”, un mosaico pavimentale di 130mq realizzato nella “Stalla della Teofondità” nel Villaggio Quadrimensionale, sede della Fondazione Nuova Specie ETS, ente riconosciuto dal Ministero dell’Interno di rilevanza nazionale.

«Perché è un’opera di rilievo nazionale? E perché lo abbiamo nominato “Il Mosaichaos delle Meraviglie”?», la domanda della Fondazione Nuova Specie ETS.

A partire dal 2 novembre, attraverso una serie di successivi comunicati stampa, proponiamo un viaggio nelle “Sette Meraviglie del Mosaichaos” per scoprire perché questa opera merita di essere conosciuta, valorizzata e diffusa, come un esempio di arte contemporanea innovativa, unica nel suo genere, e perché osiamo affermare che sarà meta ambita di molti visitatori provenienti da tanti e diversificati territori, incuriositi-ammaliati dalle sue particolarità artistico-compositive e di senso profondo.

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