Sabato 25 novembre 2023, a Foggia, dalle ore 11:00, presso la Sala Tribunale di Palazzo Dogana, si svolgerà il “Convegno Tratturo Magno: sinergie delle tre regioni del tratturo”, del “Festival del Tratturo 2023”
Durante i lavori, cui parteciperanno diverse personalità del mondo culturale, storico, politico e istituzionale locale e regionale, verrà affrontato il tema della “Progettualità e fattibilità di un futuro Cammino dei Pastori".
L’evento rientra nella cerimonia di premiazione della III edizione del Premio Letterario "Tratturo Magno".
Martedì 28 novembre 2023, alle ore 17.30 si svolgerà la conferenza "Le stele daunie e la poesia di Cristanziano Serricchio". Interverrà Vittorio Marchesiello, artista, storico e cultore delle origini daune, di Foggia e della Capitanata.
Nella sostanza è un intervento nell'ambito delle "Conversazioni di Storia Locale" organizzate dalla Biblioteca di Foggia.
Di seguito le date degli altri appuntamenti.
Terza e ultima parte dell’ampio reportage di Archeorepoter sugli scavi di Siponto. Dopo la prima puntata sugli scavi di Sipontum con le importanti testimonianze della città romana e poi medievale, dove è stata evidenziata la presenza di una chiesa e di un cimitero all'interno dell'area dell'edificio e poi quelle sulle grandi mura della cerchia romana, con le mura urbiche, dalla fondazione della colonia, fino agli ultimi momenti di vita della grande città sotto gli Svevi, questo diamante di storia parla del quartiere dell'antico porto, nei pressi di una linea di costa che è arretrata di alcune centinaia di metri dalla tarda antichità e dal medioevo. Si trattava in realtà di uno scalo endolagunare, quindi non direttamente sul mare, come testimoniano anche alcune aree umide di cui in zona esistono ancora preziose tracce. Il porto aveva assunto in tarda età imperiale, e anche nel primo medioevo, un'importanza notevole come centro principale di esportazione del grano del Tavoliere, con contatti continui con il Mediterraneo orientale e le coste dell'Africa.
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Gli scavi archeologici di Siponto sono condotti dalle Università di Bari e di Foggia, con la direzione di Roberto Goffredo, Maria Turchiano (Unifg) e Giuliano Volpe (Uniba), su concessione del Ministero della Cultura (DD DG-ABAP 872-873/2021), in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Barletta, Andria, Trani e Foggia, la Direzione Regionale Musei Puglia e il Parco Archeologico di Siponto.
Rientra nel Progetto: CHANGES - Cultural Heritage Active Innovation for Sustainable Society - Project code: PE0000020 CUP: H53C22000860006 Fondazione CHANGES, presso Sapienza Università di Roma, Presidente: prof. Marco Mancini.
Spoke 1. Historical landscapes, traditions and cultural identities.
Spoke leader Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, Coordinatore scientifico: Prof. Giuliano Volpe.
A chiusura delle celebrazioni per i 100 anni dell’edificio scolastico “Edmondo De Amicis”di San Severo, il CRD Storia di Capitanata in collaborazione con il Circolo Didattico De Amicis organizza la conferenza “1943-44 - Il De Amicis fece la guerra” in programma giovedì 16 novembre 2023 nell’aula magna dell’istituto scolastico alle ore 18.
Nel corso della conferenza relazionata da Giuseppe Clemente, Presidente onorario del CRD, e autore dell’ultimo libro dal titolo “Storie di guerra - San Severo 1943-44”, si evidenzierà il contributo dato dall’edificio durante la seconda guerra mondiale. Presenti anche Anna Maria Troiano, Dirigente Istituto De Amicis, e Dina Contò, Presidente del CRD Storia di Capitanata.
Negli ultimi mesi del 1943 San Severo fu ritenuta la sede ideale del Mediterranean Allied Photo Reconnaissance Wing, ossia del centro di elaborazione dati delle fotografie aeree scattate dai ricognitori nell’Europa ancora occupata dai nazisti. Era il più grande dell’area mediterranea e il suo contributo all’esito finale della seconda guerra mondiale è stato rilevante, anche se, ancora oggi, poco noto. Per sistemare i laboratori e gli uffici gli Alleati requisirono l’allora l’edificio scolastico “Principe di Piemonte”, oggi “De Amicis”, “vasto e freddo durante l’inverno”, nel quale dal 6 dicembre 1943 all’11 ottobre 1944 operarono gli uomini del 32nd Photographic Reconnaissance Squadron e quelli del 4th Photo Technical Squadron insieme a squadriglie aeree e tecnici della RAF. Al “De Amicis” confluivano tutte le foto fatte nei voli di ricognizione, perché era il più attrezzato centro per la interpretazione delle fotografie aeree. Le monumentali macchine per lo sviluppo continuo delle pellicole e la stampa vennero trasferite alla fine del 1943 da La Marsa in Tunisia a San Severo. Tra i tecnici, tutti “uomini geniali” vi erano ingegneri, architetti, grafici, disegnatori, topografi, esperti in aerofotogrammetria e anche buoni pittori, tutti indispensabili per la lettura e la ricostruzione dei paesaggi e utile fu il loro l’apporto anche allo sbarco in Normandia, tanto che nel luglio del 1944, come riporta il pediatra Giacomo Pazienza, ricevettero la visita di re Giorgio VI d’Inghilterra, padre di Elisabetta II. Di questo e altro ancora si parlerà nel corso della conferenza.
“Tutte le città europee che aderiscono alla Via Francigena si incontreranno a Monte Sant’Angelo nell’ottobre 2024” - ha annunciato il Sindaco di Monte Sant’Angelo, Pierpaolo d’Arienzo. È stato stabilito nei giorni scorsi in occasione dell’assemblea tenutasi a Pavia.
Si terrà a Monte Sant’Angelo l’assemblea generale di AEVF (Associazione Europea Via Francigena) a 30 anni dal riconoscimento della Via Francigena quale Itinerario culturale del Consiglio d’Europa e quella immediatamente precedente all’apertura del Giubileo 2025.
“Un’assemblea generale nell’anno in cui saremo Capitale della cultura di Puglia con il progetto Un Monte in cammino e che seguirà a quella della rete europea della Via Micaelica che si incontrerà qui a maggio” - aggiunge d’Arienzo - “Spiritualità, cammini, cultura: assi strategici su cui abbiamo lavorato tanto e siamo orgogliosi di essere riusciti a rendere Monte Sant’Angelo protagonista non solo a livello regionale ma anche nazionale e sempre più internazionale”
Nel panorama culturale italiano, Goffredo Coppola merita un posto di rilievo, se non fosse che la storia del secolo scorso risulta ancora contrassegnata da pregiudizi ideologici e politici.
Nel 1944 uscì una raccolta di articoli di Coppola – dal titolo Trenta danari - scritti nel periodo bellico per il “Popolo d’Italia”, “Civiltà Fascista” e “Corriere della Sera”: il titolo del libro fa riferimento all’episodio del tradimento di Giuda, mentre la maggior parte degli articoli si collega a episodi del Vecchio Testamento, di cui l’autore offre una lettura attualizzata. “Trenta danari. Il più formidabile atto di accusa contro il giudaismo capitalistico è qui, nel turpe baratto dei trenta danari, che il tempio d’Israele paga perché sia tradito Gesù, e che al tempio d’Israele ritornano intrisi di quel sangue e maledetti perfino da Giuda”, così scriveva Goffredo Coppola.
A distanza di oltre settant’anni, ci ha pensato la casa editrice Edizioni all’insegna del Veltro (2020, € 15.00) a riesumare dall’oblio la figura e il nome dell’illustre latinista e grecista, con la ripubblicazione della raccolta “Trenta danari”, che denota una buona conoscenza dei testi biblici.
«Ma Coppola professò il suo antiebraismo anche altrove ed in altri momenti», evidenzia Flavio Costantino nel suo saggio introduttivo all’opera, quest’ultima impreziosita da una interessante appendice di Claudio Mutti, dal titolo “Gli ebrei sono semiti?”.
L’importante filologo, nato il 21 settembre del 1898 in provincia di Benevento, è figlio delle trincee della Grande Guerra, animato da un potente amor di patria. Fu ricercatore di edizioni rare di libri: durante la sua breve vita, mise insieme una biblioteca imponente, facendone poi dono all’Università di Bologna. Goffredo Coppola testimoniò, sacrificando la sua vita, la fedeltà ad una scelta nella quale si era totalmente riconosciuto. «Morirò con Mussolini» si confidò con un suo amico nei primi giorni del 1945. Come filologo, Coppola scrisse circa un centinaio di saggi, in cui cercò di ravvivare il mito di Roma, avendo considerato l’espansionismo fascista come un ritorno alla vocazione imperiale.
Nel 1943 fu eletto all’unanimità Rettore dell’Università felsinea, votato anche da coloro che non erano schierati politicamente dalla stessa parte, ma gli riconoscevano un grande valore culturale e umano. Resta attuale il pensiero “europeista” dell’ex ministro della Repubblica Sociale Italiana. «Come un tempo era orgoglio dell’uomo civile chiamarsi e sentirsi civus Romanus, così sarà orgoglio, domani, chiamarsi e sentirsi civis Europaeus”…. Ecco perché all’Europa che gli eserciti anglo-americani e sovietici vorrebbero sovvertire in nome di un cosmopolitismo adoratore del biblico vitello d’oro e della vacca rossa, noi opponiamo la coscienza di una solidarietà europea che nasce dalla consapevolezza delle singole individualità nazionali», ebbe a scrivere Coppola. Nella quadreria del Rettorato, si trova il suo ritratto tra quelli degli altri rettori. E’ un pezzo di storia che appartiene all’Ateneo, alla città di Bologna e all’Italia. Risale a dieci anni fa l’ultima polemica sulla presenza del suo ritratto presso l’Università, realizzato nel 1952 da Gino Marzocchi. Se nel 1945 l’assassinio per mano partigiana ha posto fine alla sua vita terrena, qualcuno oggi vorrebbe cancellarne anche la memoria. Appare quindi fondamentale la ristampa delle Edizioni all’Insegna del Veltro. A ricordare, attraverso gli scritti e le opere, questi italiani, uomini di tempra rara, di cui si avverte la mancanza.
L’Ente parco nazionale del Gargano ha affidato i servizi di progettazione, direzione lavori e coordinamento della sicurezza relativi ai lavori di ricostruzione e messa in sicurezza dei Trabucchi ubicati nel comune di Peschici.
L’azione rientra nell’ambito del Protocollo di intesa con cui l’Ente parco nazionale del Gargano e la Regione Puglia hanno cofinanziato gli interventi per l’attuazione delle iniziative di recupero e valorizzazione dei Trabucchi storici del Gargano (nei comuni di Peschici, Vieste e Rodi Garganico).
Si tratta di una progettualità rimasta bloccata per lungo tempo e resa operativa grazie all’impegno dell’attuale governance dell’Ente parco.
In esecuzione del protocollo d’intesa tra l’Ente parco nazionale del Gargano e la Regione Puglia, sono già stati realizzati importanti interventi di recupero dei trabucchi di Rodi Garganico e di Vieste. Grazie anche alla programmazione strategica di iniziative di comunicazione e di animazione, ovvero di visite guidate, messe in campo attraverso il coinvolgimento delle locali organizzazioni e associazioni di trabucchisti e trabuccolanti che, raccontando la storia di queste semplici – ma nel contempo complesse – macchine da pesca e mostrando il loro funzionamento, si sono impegnate per incrementarne l’attrattività e la fruizione da parte di visitatori e turisti già nel corso dell’appena conclusa stagione estiva.
E grazie ancora a queste azioni di recupero e promozione messe in atto attraverso l’impegno diretto dell’Ente parco nazionale del Gargano è stato anche possibile candidare i Trabucchi al riconoscimento UNESCO.
“L’obiettivo del Parco, in stretta sinergia con la Regione Puglia, è quello di sottrarre all’incuria e al degrado i trabucchi del Gargano, quale aspetto fortemente identitario della cultura peschereccia delle Comunità che si affacciano sul mare e di promuovere – congiuntamente ai Comuni e agli stakeholders interessati – un piano di azioni finalizzato alla loro valorizzazione in una logica di “sistema dei trabucchi garganici” che va inserito e annoverato anche nella proposta territoriale dei percorsi di mobilità lenta al fine di integrare in un insieme i vari aspetti che riguardano la natura, la cultura, il mare, la storia e – più in generale – l’identità del nostro Gargano”, ha dichiarato il Presidente Pasquale Pazienza.
“Ringraziamo il Parco per aver accolto il nostro invito e partecipato nelle settimane precedenti al tavolo tecnico per l’avvio degli interventi di manutenzione e valorizzazione dei Trabucchi di Peschici e per la condivisione delle strategie di promozione e rilancio della rete di Trabucchi garganici. Una sinergia istituzionale efficace che ci permetterà di mettere in campo numerose iniziative per la nostra comunità”, il commento del Sindaco Luigi D’Arenzo.
Gli interventi sui trabucchi – per i quali un recente tavolo di coordinamento tecnico-operativo è stato svolto lo scorso 26 settembre presso la sede Comunale di Peschici – hanno richiesto tempi più lunghi perché, a differenza dei trabucchi di Vieste, le cui concessioni demaniali risultano interamente pubbliche, quelli di Peschici oggetto di recupero risultano in capo a soggetti privati. Per questo motivo si è reso necessario sottoscrivere un’intesa formale tra il Comune di Peschici e i concessionari privati al fine di regolamentare una serie di aspetti – principalmente riguardanti la pubblica fruibilità e la sicurezza – propedeutici all’impiego di risorse pubbliche in quei siti, ovvero all’avvio delle operazioni tecniche necessarie (progettazione, direzione lavori, ecc.) volte all’implementazione degli interventi di recupero previsti.
I trabucchi peschiciani che saranno oggetto degli interventi di recupero e adeguamento funzionale sono i due presenti a “Punta San Nicola (Levante)”, e quelli di “Punta Forcichella”, di “Punta Usmai”, di “Punta Ponticella”, di “Punta Monte Pucci”, e di “Punta Manaccora”.
Nell’anno stesso in cui Raffaele Vittorio Cassitto, agronomo viestano dalle origini aristocratiche risalenti ai conti Ortenburg d’oltralpe, pubblicava una monografia sui lambascioni [1], consegnava alle stampe un testo riguardante un prezioso frutto spontaneo che caratterizzava sin dai tempi antichi, nei mesi estivi, il paesaggio del Tavoliere e del Gargano: il cappero[2].
Era il 1925 e la ricerca di Cassitto sui capperi, originari dell’Arabia e dell’Africa del nord e perfettamente adattati al clima arido del Tavoliere e al terreno calcareo del Gargano, conserva oggi più che mai un peculiare interesse persino a livello linguistico: i frutticini del cappero, commercialmente denominati «pecchette di capperi o zucchette di capperi», a Vieste erano chiamati «cavadducci», a Rodi e a Ischitella «cucuccioli», nel foggiano «truoli»[3].
La descrizione della presenza del cappero nell’arido e assolato Tavoliere del primo Novecento rappresenta una mirabile pagina di storia che ci riconsegna non solo il paesaggio in parte mutato della pianura dauna, ma anche il profondo senso di isolamento e di abbandono vissuto per secoli da uomini che osavano sfidare durante l’estate, costretti da misere condizioni di sopravvivenza, il caldo torrido e le stagnanti aree malariche descritte da viaggiatori eccellenti quali Giuseppe Maria Galanti[4] e Francesco Longano[5]: «Nell’estate quando tutto è arso dalla siccita e dal sole cocente, e quando la larga campagna del Tavoliere di Puglia appare tutta deserta e desolata, solo il cappero verdeggia, quale ornamento, come sollievo e speranza agli sperduti nella campagna»[6].
Secondo l’autore viestano il cappero era diffusissimo nei terreni incolti del Tavoliere, in particolare nelle contrade «Fontanarosa, Incoronata, nelle tenute di Postapiana e Vaccarella, nelle mezzane, Filiasi e Giuliani […]». Nel Gargano la pianta cresceva spontaneamente nelle aree rupestri marittime, nei dirupi, nei burroni, nei crepacci di Monte S. Angelo e Mattinata, oltre che «nel sottobosco e nei pascoli cespugliosi, volgarmente chiamati parchi, di Vieste, Peschici e Vico». Nelle isole Tremiti, il cappero era presente soprattutto sull’isoletta «Capparaia», nome derivante dalla «straordinaria abbondanza della Capparis Rupestris», che rivestiva tutta l’isoletta di un «caratteristico manto verdeggiante nell’azzurro mare Adriatico»[7].
Passando ai dati sulla raccolta dei boccioli fiorali e dei frutticini della pianta del cappero, Cassitto annotava la discrepanza tra la modesta raccolta e la larga quantità disponibile in natura, nonostante la richiesta commerciale fosse cresciuta con prezzi ampiamente remunerativi. In particolare nel Gargano, ad eccezione di Vieste, Mattinata e Peschici, la raccolta dei capperi era limitata a soddisfare la richiesta delle famiglie benestanti, per il resto la produzione spontanea di boccioli e frutticini andava persa. La raccolta in tutto il Gargano raggiungeva mediamente i 30-40 quintali l’anno a fronte di una disponibilità di circa 200 quintali, mentre nella sola Foggia superava i 200 quintali grazie all’opera dei «terrazzani» che vivevano raggruppati nel quartiere «Le Croci» e che, uscendo di prima mattina con l’intera famiglia e vagando per le campagne, riuscivano a raccogliere «dai 2 ai 3 ottavi[8] di tomolo di capperi» vendendoli nel Dopoguerra a «dieci lire l’ottavo, guadagnando così dalle 25 alle 30 lire al giorno»[9].
L’agronomo garganico stimava in almeno mille quintali la produzione di capperi che non veniva raccolta in tutta la Capitanata, corrispondente a una perdita di ricchezza di ben un milione di lire: «Col lasciare in abbandono questi prodotti spontanei, non è la sola materia prima che si perde, non è il solo denaro che non si guadagna, ma è tutto un movimento economico che non si ha. Quanto lavoro non va perduto? Quanta mano d’opera non resta improduttiva? Eppure la raccolta dei capperi, dei funghi, dei lampasciuoli, delle ciammaruchelle[10], degli asparagi ecc., fatta dappertutto darebbe lavoro e pane a centinaia di famiglie per alcuni mesi dell’anno, e proprio quando minore è il bisogno di lavoro in campagna»[11].
Particolarmente interessanti risultano le notizie di Cassitto circa il commercio dei capperi nel capoluogo Foggia, che veniva gestito dai noti fratelli Orlando e da Mario Casalanguida, mentre fino a pochi anni prima se ne erano occupati De Angelis e Rabaglietta, il quale spediva i capperi alla Cirio con sede a San Giovanni a Teduccio, oltre che a Trieste e in Austria. La produzione di capperi di Foggia e del Tavoliere veniva spedita a Bari e negli Abruzzi, tuttavia era Cosimo Farina di Ostuni a risultare il maggior incettatore di capperi in Puglia e a comprarne anche oltre il 50%. Anche i capperi del Gargano prendevano la via di Bari e degli Abruzzi, pur avendo avuto un passato di commercializzazione con i mercati della Dalmazia[12].
Oltre ad essere apprezzati ai fini alimentari, i capperi avevano proprietà terapeutiche che Cassitto faceva risalire a remoti tempi storici: «In Africa si usa la radice come dentifricio, e da noi i teneri getti, perché ritenuti diuretici. In commercio, si trova la corteccia dei rami del cappero, utilizzata a scopo terapeutici, e la si trova sottoforma di frammenti irregolari di colore grigio cenere, di sapore amaro, di odore nullo»[13].
Data la forte richiesta inevasa di capperi dall’estero, Cassitto invitava i contadini a coltivarli, essendo un’attività redditizia che non destava particolari esigenze dal punto di vista colturale. L’autore indicava anche i metodi e i tempi della propagazione delle piantine: «La moltiplicazione avviene per talee, in primavera, o per polloni radicati, in autunno. Talee e polloni si tolgono dalle piante madri e si trapiantano alla distanza di uno o due metri, l’una dall’altra. Nello stesso anno si ha qualche frutto, ma al secondo anno, la novella pianta è in piena produzione. Da dieci a vent’anni si ha il massimo prodotto, perché la pianta ha lunga vita»[14].
Cassitto aveva spedito nell’aprile del 1931 alcuni suoi testi all’ingegnere Giuseppe Lucifero, barone di Milazzo, ex «direttore delle Officine del Gas, Luce ed Energia Elettrica di Bari, al servizio della Tuscan Gas Company Limited di Londra»[15], il quale si deliziava a coltivare capperi sul promontorio di Milazzo.
Grazie a una fortunata coincidenza lo scrivente è entrato in possesso di una lettera di ringraziamento dell’ingegnere siciliano all’autore viestano dalla quale scopriamo che Cassitto svolgeva la professione di docente di Agraria a Foggia[16]. Una lettera, rinvenuta nel blog di Massimo Tricamo[17], che si riporta integralmente poiché da essa si traggono informazioni preziose non solo sulla coltivazione del cappero in Sicilia, ma anche sulla raccolta di lambascioni e lumache (ciammaruchelle) che l’ingegner Lucifero riteneva del tutto ignorate nella sua provincia: «Bari, 25 aprile 1931. Ill.mo Dottor Raffaele Cassitto, professore di Agraria nel R. Istituto Tecnico di Foggia. Egregio Signor Professore, ho ricevuto la gradita e gentile sua lettera del 22 corrente con le sue dotte monografie. La ringrazio infinitamente. Ho letto avidamente il suo lavoro sui capperi e molto ho appreso: io mi occupo di questa coltivazione perché in una mia proprietà sita all’estrema punta del Promontorio di Milazzo (Sicilia) il cappero nasce spontaneo e ne fa una raccolta di circa due quintali annuali. Essendo la qualità molto pregiata mi è sorta l’idea di farne una coltivazione in tutti quei punti costieri in cui il terreno non è adatto alla coltura arborea. So che nelle Isole Eolie il cappero è coltivato in chiudende in prossimità della spiaggia ed il prodotto è facilmente esportabile; in questo scorso autunno ho voluto tentare una prova ed ho costituito un piccolo vivaio di 500 piante, seguendo le indicazioni del dottor S. Trentin racchiuse nel suo libro sul tema, non conosco però il risultato, i coloni affermano che difficilmente attecchiranno. Ho tentato pure la propagazione per seme e ne ho ottenuto poche piantine in vaso, la germinazione è stentata e lunga e bisognerebbe conoscere un mezzo adatto per forzarla.
Ella si è addimostrata così gentile a mio riguardo che mi permetto pregarla di volermi indicare, qualora vi sia, qualche trattato in cui si parli estesamente della coltura del cappero e della sua propagazione per talea e per seme, onde averne una completa nozione.
Leggerò con piacere le altre sue memorie sui lampasciuli[18] e sulle ciammaruchelle[19], le cui industrie sono completamente sconosciute nella mia provincia in Sicilia, ed abusando della sua cortese esibizione, mi permetto pregarla di farmi conoscere dove acquistare la sua monografia sulla coltivazione e l’industria dei fichi d’India[20].
Sarei lietissimo di fare la sua personale conoscenza e ringraziarla a viva voce, ma nella prossima settimana farò ritorno in Sicilia e non sarò nuovamente a Bari che nel periodo della Fiera del Levante.
Gradisca, Ill.mo Signor Professore, i miei sentiti ringraziamenti e mentre le assicuro che non mancherò di porgere i suoi saluti all’egregio dottor Terlizzi, distintamente la ossequio, devotissimo Ing. Giuseppe Lucifero».
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[1] R. V. Cassitto, Piccole industrie rurali in Capitanata. I lampasciuli, Foggia, Tip. P. Cardone, 1925.
[2] R. V. Cassitto, I capperi, Foggia, Tip. P. Cardone, 1925.
[3] Ivi, p. 7.
[4] G. M. Galanti Giuseppe Maria, Relazioni sulla Puglia del '700, a cura di Enzo PANAREO, Cavallino di Lecce, Capone Editore, 1984.
[5] F. Longano, Viaggio dell'abate Longano per la Capitanata, Napoli, presso Domenico Sangiacomo, 1790.
[6] R. V. Cassitto, I capperi, cit., p.7.
[7] Ivi, p. 8.
[8] Un ottavo pesava da 2 a 3 chilogrammi di capperi.
[9] R. V. Cassitto, I capperi, cit., p.11.
[10] Lumache
[11] R. V. Cassitto, I capperi, cit., p.10.
[12] Ivi, pp. 11-13.
[13] Ivi, p. 18.
[14] Ivi, pp. 13-14.
[15] M. Tricamo, Storie della Baronia: da documenti inediti di casa Lucifero, in http://storiedellabaronia>.blogspost.com, 12 febbraio 2016.
[16] Ibidem.
[17] Massimo Tricamo (Milazzo 1974), socio della Società di Storia Patria milazzese, appassionato di storia locale che ha pubblicato diversi testi riguardanti la storia della sua città natale.
[18] Cassitto, Piccole industrie rurali in Capitanata. I lampasciuli, cit., 1925.
[19] R. V. Cassitto, Le Ciammaruchelle (lumache), Foggia, Bollettino della Camera di Commercio di Foggia, anno X, n. 1, 1922.
[20] R. V. Cassitto, La coltivazione e l’industria del fico d’india, Foggia, Tipografia Paolo Cardone, 1924.
Dopo la prima puntata sugli scavi di Sipontum, dove sono riemerse testimonianze importanti della città romana e poi medievale, Archeoreporter ritorna con una perla video. Gli scavi assieme all'anfiteatro, stanno facendo emergere le grandi mura della cerchia romana, in particolare alle mura urbiche, dalla fondazione della colonia, fino agli ultimi momenti di vita della grande città sotto gli Svevi.
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Gli scavi archeologici di Siponto sono condotti dalle Università di Bari e di Foggia, con la direzione di Roberto Goffredo, Maria Turchiano (Unifg) e Giuliano Volpe (Uniba), su concessione del Ministero della Cultura (DD DG-ABAP 872-873/2021), in collaborazione con la Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Barletta, Andria, Trani e Foggia, la Direzione Regionale Musei Puglia e il Parco Archeologico di Siponto.
Rientra nel Progetto: CHANGES - Cultural Heritage Active Innovation for Sustainable Society - Project code: PE0000020 CUP: H53C22000860006 Fondazione CHANGES, presso Sapienza Università di Roma, Presidente: prof. Marco Mancini.
Spoke 1. Historical landscapes, traditions and cultural identities.
Spoke leader Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, Coordinatore scientifico: Prof. Giuliano Volpe.
Quarantatré anni fa, il 2 agosto del 1980, un ordigno ad altissimo potenziale, esplose nella sala d’aspetto della stazione ferroviaria di Bologna e causò la morte di 85 persone nonché il ferimento di altre 200.
L’ultima pubblicazione di Luca Tadolini, stampata il mese scorso per conto delle Edizioni all’insegna del Veltro (€ 14,00), è incentrata proprio sulla strage di Bologna.
L’autore tenta di dipanare l’ingarbugliata matassa inerente al tragico fatto, lanciando l’ipotesi di una pista israeliana, ignorata dai tribunali italiani.
L’analisi di Tadolini si appoggia su un dato certo: la presenza alla stazione di Bologna - il giorno della strage - di Thomas Kram, tedesco esperto di esplosivi del Gruppo Carlos, la più famosa organizzazione internazionale di eversione rivoluzionaria di quegli anni, con appoggi nel Patto di Varsavia e con una alleanza di ferro con i più estremi gruppi palestinesi.
A Bologna risiedeva anche il rappresentate italiano della formazione palestinese FPLP di George Habash. A questa sigla armata pochi mesi prima erano stati sequestrati dei missili antiaerei a Ortona, con l’arresto di esponenti palestinesi al seguito. Un incidente che avrebbe determinato un vulnus del Lodo Moro, l’accordo segreto che consentiva ai palestinesi di transitare e avere depositi di armi in Italia, in cambio all’Italia era garantita l’immunità da attentati.
Queste circostanze sono state studiate, nel corso degli anni, come la “Pista palestinese” (ovviamente presto archiviata dalla magistratura italiana), ritenendo che Bologna avesse subìto una rappresaglia dei feddayin.
Luca Tadolini ha invece trovato tracce della presenza del Mossad. Viene vagliata l’ipotesi di un accordo tra italiani e palestinesi per risolvere la crisi dei missili di Ortona. Si sarebbe consentito al FPLP, con l’intervento niente meno degli uomini di Carlos, di trasportare esplosivo verso un obiettivo israeliano fuori dell’Europa. A questo punto i servizi speciali israeliani sarebbero intervenuti, provocando la detonazione del carico alla stazione di Bologna.
Tadolini espone in tre interventi questo nuovo scenario, che trova importanti punti di appoggio nell’abbattimento, anni prima, dell’aereo italiano Argo 16, con successivo processo (senza esito) a plenipotenziari del Mossad, fino alle dichiarazioni del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga e alle recentissime dichiarazioni dell’ultimo imputato per la strage di Bologna.
Non ci si fa illusioni su come verrà accolto lo studio: ormai la formulazione di qualsiasi ipotesi diversa dalla strage neofascista sul 2 agosto 1980 viene accusata di depistaggio”, scrive Tadolini nell’introduzione al suo pamphlet.
Negli ultimi anni sono stati pubblicati libri che hanno proposto ipotesi alternative riguardo agli autori e ai mandanti della strage. Vi si sono aggiunte le voci di importanti personaggi politico-istituzionali di allora: fra tutti, Rino Formica. Quest’ultimo, tuttora vivente, così si espresse: “Altro che strage fascista: è accaduto qualcosa di totalmente nuovo, qualcosa che pone il problema della nostra autonomia internazionale”.
Nel contempo, il libro di Tadolini fa riflettere sulla condizione umiliante in cui versa l’Italia, con un ruolo internazionale subalterno nello scacchiere geopolitico, che permane ancora oggi: è un Paese a sovranità limitata. Non solo il “lodo Moro”, più volte ricordato nelle pagine del libro, ma anche l’ipotizzata pista israeliana – suffragata anche da un Mossad ben radicato nel territorio italiano - confermano lo scorazzare, già da allora lungo tutta la Penisola, di agenti stranieri o al soldo di potenze straniere, capaci di condizionarne la vita politico-istituzionale. Le basi militari americane sul territorio nazionale ne sono una ulteriore conferma. La strage di Ustica, in cui perirono 81 italiani, anticipa di poco più di un mese quella di Bologna. Su Ustica, in una recente intervista l’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato, ha dichiarato: “La tragedia di Ustica era stato un atto di guerra in tempo di pace in un Paese a sovranità nazionale limitata”.
Non è difficile intuire che la verità, in un simile scenario come quello italiano, fa fatica ad emergere e può arrestarsi di fronte a più porte chiuse.
Del resto, scrive Tadolini, “i rapporti geopolitici italiani del 1980 (ma anche quelli attuali) non consentivano all’Italia sgarri rispetto alla Nato o ad Israele – specie in uno scacchiere come quello mediterraneo”.
Lo stesso ex esponente socialista, Formica , ricorda che “chiunque comandi in Italia deve ricordarsi di stare al suo posto”. Forse tale monito spiega il perché dei tanti misteri che accompagnano le stragi sul suolo del Belpaese.
Certamente, il libro in questione getta ulteriore luce sulle dinamiche che hanno portato alla strage di Bologna.